Se la vittoria è un’eccezione

Se la vittoria è un’eccezione© ANSA
Alessandro Barbano
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Per capire perché abbiamo perso il Mondiale, dobbiamo capire perché abbiamo vinto l’Europeo. Se passa il luogo comune che a Wembley siamo stati baciati dalla fortuna e a Palermo dal suo contrario, facciamo solo confusione. E nella confusione si può sacrificare un capro espiatorio, illudersi della catarsi che segue, ma rinunciare a guardare cosa c’è nel futuro. L’analisi distaccata di ciò che è accaduto negli ultimi cinque anni è l’unica chance che abbiamo per non sbagliare più. Ci suggerisce una parabola, ai cui estremi ci sono le due esclusioni dal Mondiale, quella di Ventura a fine 2017, e quella di Mancini dell’altra sera, e al cui vertice c’è il trionfo dell’Europeo. Cinque anni fa come oggi, la Nazionale era ed è lo specchio dell’irrilevanza delle squadre di club. In mezzo c’è la galoppata delle 11 vittorie consecutive e dei 37 risultati utili di Mancini. E c’è, soprattutto, il podio di Londra.

Nessuno a questo punto dubita che il declino sportivo della serie A abbia in egual misura motivazioni finanziarie, industriali e sportive. Le prime riguardano le dissennate gestioni dei bilanci, gli azzardi di mercato coperti dalle plusvalenze fittizie, gli ingaggi asimmetrici rispetto al valore sportivo. Le seconde comprendono il mancato investimento in stadi e vivai, e l’incapacità di produrre e vendere al meglio uno spettacolo qualitativamente competitivo. Le terze si raccontano con la rinuncia a investire nei saperi dello sport e a farne una scienza, e con la tendenza a considerare l’allenatore come il mago a cui chiedere il sortilegio vincente in tempi brevissimi, e in caso contrario cacciarlo. Questo paradigma è comune all’intera classe dirigente del calcio italiano nel quinquennio considerato. Le scelte sono diverse, ma la matrice culturale è la stessa. Tra l’azzardo di Ronaldo alla Juve e le panchine che saltano come birilli al Genoa, c’è una uguale postura manageriale. Per la quale il calcio è un artigianato irragionevolmente ricco, attraversato negli ultimi anni da una modernizzazione tanto veloce quanto asimmetrica. Dove l’innovazione più spinta convive con tratti arcaici duri a cambiare.

In questo contesto la Nazionale di Mancini segna una discontinuità. Perché avvia una programmazione a medio termine, riconosce un’autonomia tecnica, sperimenta con libertà e coraggio uomini e moduli - alcuni titolari imposti dal ct non avevano nel club neanche la certezza della maglia - e costruisce uno spirito di gruppo attorno a un progetto ambizioso. Il trionfo europeo è un’eccezione, ma non una casualità. Perché la Nazionale, che non è una squadra imbattibile, tira fuori un carattere esemplare. È questo il maggior merito di Mancini. Il carattere è stato nell’ultimo decennio uno dei punti di debolezza del calcio di club. Nessuno si è mai chiesto se ci sia una relazione tra il deficit di personalità che le squadre italiane scontano nelle Coppe e l’investimento nella formazione culturale dei calciatori, soprattutto nei vivai. In apparenza le due cose non c’entrano niente, in realtà la leadership sportiva, la disponibilità al sacrificio e la capacità di aumentare la risposta prestazionale in condizioni di emergenza si potenziano anche con la cultura. Molte società aiutano i ragazzi a prendere la maturità attraverso scorciatoie varie, ma la formazione è ben altra cosa, richiede un investimento specifico, ed è sostanzialmente ignorata. Quando i calciatori italiani, anche ai livelli maggiori, parlano ai microfoni delle tv, spesso sono imbarazzanti, altrettanto spesso si rifugiano nei luoghi comuni, e solo raramente riescono ad esprimere contenuti.

Ma torniamo al miracolo di Mancini, che miracolo non è. L’Italia che vince punta su alcuni calciatori di valore internazionale, come Jorginho e Verratti, oltre al duo Chiellini-Bonucci, valorizza risorse emergenti del campionato, come Locatelli, Chiesa, Berardi e Di Lorenzo, riscopre talenti sottostimati, come Spinazzola e lo stesso Insigne. Non stravince, ma vince, soffrendo con la Spagna, ma senza soccombere.

Però il successo, lo abbiamo già scritto, non è un piatto da conservare in freezer e scongelare alla bisogna nel forno a microonde. La manutenzione del successo è evoluzione, e l’evoluzione ha passaggi traumatici. Mancini avrebbe dovuto leggere i consigli che l’imperatore Adriano dà al giovane Marco Aurelio, nel capolavoro di Marguerite Yourcenar, e che impongono talvolta al leader di scaricare i suoi compagni di viaggio. L’autunno del ct non mostra lo stesso coraggio della sua primavera. Mancini sperimenta quel poco che c’è in campionato, lancia Raspadori e Kean, studia Scamacca e Tonali, ma nei momenti decisivi conferma il blocco europeo. E l’Italia zoppica. In sette partite ne vince solo due, ne pareggia quattro, e cade per due a uno nella semifinale di Nation League con la Spagna, nel cui centrocampo nel secondo tempo ci sono due adolescenti. Le contraddizioni, nascoste all’Europeo dalla forza solidale del collettivo azzurro, vengono a galla. La Nazionale gioca in dieci. Immobile c’è, ma non si vede. E si arriva allo spareggio fatale con la Macedonia, senza che nessuno abbia dato una risposta convincente al quesito che le sue deludenti prestazioni sollevano: se il centravanti della Lazio è incompatibile con il gioco di Mancini, si cambia centravanti o si cambia modulo?

Il fatto è che non c’è più tempo per nessuna delle due opzioni. Il campionato e le Coppe incalzano, lo scudetto torna contendibile, il Covid è in agguato. Per la Nazionale non c’è neanche la finestra di un week-end. Mancini, assediato dai problemi irrisolti, è sempre più isolato, si blinda nelle uniche certezze di cui dispone. Mette agli atti, nella conferenza stampa della vigilia, che «per provare soluzioni nuove non c’è stato tempo», e va incontro alla disfatta con quella cecità che dissimula, prima a se stesso che ai suoi ragazzi, i tre sentimenti che prova: la paura, la rabbia e l’orgoglio. Il resto è il vuoto assordante di sentirsi fuori dal mondo per otto anni.

Si può recriminare. E il presidente della FIGC, Gabriele Gravina, cede a questa tentazione, addossando all’indifferenza dei club le ragioni del crollo. Ma diamine, se l’esclusione era il peggiore dei mali per tutto il calcio italiano, non si sarebbero potuti preparare degnamente gli spareggi? La verità è che chiederselo non serve più. Bisogna sedersi e guardarsi in faccia. Per ricostruire la Nazionale non più come un’eccezione del sistema, ma come il suo specchio. Ci vorrà tanta volontà e tanta buona fede, meglio cominciare subito.


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