Se scompare il made in Italy

Se scompare il made in Italy© EPA
Antonio Giordano
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In questa enorme Babele in cui il calcio mette assieme il meglio di sé, è più semplice ritrovare quell’ago in genere depositato in un pagliaio che un calciatore italiano capace di sedurre il mercato per guadagnarsi una piccola foto in copertina. Da Lukaku a Di Maria, da Jovic a Kvaratskhelia, dal Manzanarre al Reno, facendosi un giretto - of course - sul Tamigi e pure sulla Senna, c’è una sfilata di uomini che stordiscono la fantasia e inducono a lasciarsi andare ma neanche lo straccio d’una idea che possa lusingare il made in Italy, finito nel sottobosco emozionale di un’estate da spettatore distratto dell’umanità. Banalmente e anche superficialmente, verrebbe da pensare che non dev’essere un caso se il nostro Mondiale verrà malinconicamente affidato ai televisori al plasma; ma nella approssimativa lettura di questa stortura, sarebbe ingeneroso e pure intellettualmente disonesto ignorare che, appena undici mesi fa, a Londra, i campioni d’Europa s’esprimevano in italiano.  

In questa storia che rappresenta a modo suo lo specchio deformante della realtà, basta farsi un giro a vedere le partite dei settori giovanili, dare uno sguardo alle Primavera, per rendersi conto che i club, nella loro esasperante esterofilia, preferiscono proiettarsi oltre frontiera e lasciare che l’erba del vicino o di casa propria resti ad ingiallire. L’arrivo di questi “giganti” è una forma di benessere tecnico che arricchirà il campionato ma l’una strategia non escluderebbe l’altra e da Scamacca a Berardi, da Salvatore Esposito a Pessina, c’è una scuola che non può essere colpevolmente ignorata. Gli stranieri sono piombati in Italia - di nuovo - il 9 maggio del 1981 e non è colpa loro se intanto, tra i Maradona e i Platini, i Falcao e gli Zico, i Socrates e i Rummenigge, ci sia finito anche un Luis Silvio, che qualche “erede” l’ha lasciato. E’ la politica dal basso che ha inaridito i pozzi mentre quella dall’alto ha prosciugato un mercato nel quale i prezzi a volte costringono le stelline a starsene a guardare. Il resto è (in)cultura d’un Paese storicamente per vecchi, che non oserebbe mai tentare di vincere una Champions League con Vinicius e Rodrygo (21 anni), che ritiene necessario e anzi indispensabile l’esperienza a tanto al chilo, che non s’è mai goduto in serie A Verratti, che ha lasciato andare in fuga uno dei suoi cervelli - il 10 della Nazionale - e che poi s’accapiglia sull’indice di liquidità, smarrendo la sostanza del calcio, che sta sempre lì dentro, in un recinto vuoto, perché intanto sono scappate non soltanto le strategie ma il pensiero stesso di sviluppar se stessi. Maledizione, gli italiani oramai lo fanno peggio. 


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