Tardelli esclusivo: "L'Italia dell'82, una famiglia diversa dalla Roma di Mourinho"

L'intervista al campione del mondo: "Bearzot un gigante: prima ci fece scudo poi lasciò a noi la favola. Rossi ti rendeva felice ogni volta che lo incontravi. Il mio urlo? Ti dico che..."
Tardelli esclusivo: "L'Italia dell'82, una famiglia diversa dalla Roma di Mourinho"
Giancarlo Dotto
15 min

Marco Tardelli e Myrta Merlino, inseparabili. I due si amano, poche storie. Non si limitano a non negarlo, lo urlano ai quattro venti. Questa volta niente urli (Tardelli ha smesso dall’82) e niente vento, insieme i due nel caldo africano di Polignano a Mare. Con Michele Emiliano, il presidente della Regione, per la serata inaugurale del festival dedicato a Lucio Dalla. Imbeccato da Myrta, Marco racconterà storie di quel mondiale mitico, quarant’anni dopo. Lunedì sera al Maxxi di Roma per la presentazione ufficiale del documentario “Italia 1982, una storia azzurra!”, per cui Tardelli ha fatto anche da consulente. Presente lui e tanti altri che fecero e raccontarono l’impresa.

L’uomo dell’urlo. Quello di Madrid fu definitivo. Il più citato al mondo, insieme a quello di Munch. Quasi un manifesto della patria, insieme alla pipa di Pertini che diventò quella notte una ciminiera nel cielo di Madrid. Marco mi parla dal lungomare di Polignano, non lontano dalla statua di bronzo alta circa tre metri di Domenico Modugno. Altra icona nazionale che volava e urlava in un cielo dipinto di blu. Non urla più Marco. Sereno e pacato, la voce e il respiro di un uomo che sta in pace con il mondo, soprattutto se buona parte di quel mondo è lì a un metro da lui e si chiama Myrta. Totem permanente Marco, ma anche scandalo vivente. Lo scandalo dei suoi 67 anni, i più improbabili di ogni tempo. 
Fosse per lui parlerebbe solo dei due “veci”. Il vecio numero uno, papà Enzo Bearzot, e il vecio numero 2, Dino Zoff, capitano e fratello maggiore di quella truppa magnificamente assortita e tanto sangue dinamitardo nelle vene.

Perché quel mondiale del 1982 è decisamente più mitico di quello del 2006? 
«Non si vinceva un mondiale da 44 anni, dalla Nazionale di Pozzo. Era un periodo difficile per il Paese. Il terrorismo, l’economia in crisi, il calcio scommesse…».

Il vostro, un mondiale di storie e personaggi irripetibili.  
«Grandi uomini come Sandro Pertini ed Enzo Bearzot. Ci mise la faccia contro tutto e tutti, il ct, quando ci massacravano e poi la favola l’ha lasciata a noi. Si è tirato indietro perché noi ci prendessimo tutti gli elogi».

Uomo di una classe infinita. 
«E di una cultura infinita. Mi parlava ore e ore, di notte quando non dormivo, di letteratura, di politica, di Dio. Era un comunista che andava a messa tutte le domeniche».

Bearzot e Pertini, gli ultimi due grandi fumatori di pipa. Nessuno o quasi fuma più la pipa.  
«Vero. Scomparsi questi due giganti, è scomparsa anche la pipa».

Aggiungerei che c’erano storie e personaggi in quell’82, ma anche gente che li sapeva raccontare. 
«Non ci sono dubbi. Penso a Gianni Brera, Arpino, Soldati, tanti altri».

Con Gianni Brera, altro grande fumatore di pipa, ci fu un problema. 
«Aveva scritto in una pagella a inizio mondiale che non meritavo la convocazione, che avevo le ruote sgonfie. In pratica, mi aveva dato del morto».

E tu? 
«All’epoca non c’era questa distanza tra giocatori e giornalisti. Entrai in un bar. C’era lui seduto. Dissi a voce alta: “Sento un odore di…”. Fui villano, lui un signore, non rispose. Mi sono scusato con il figlio tanti anni dopo».

I giornalisti vi hanno raccontato, ma vi hanno anche massacrato.  
«Ci scrissero di tutto. Che dovevamo restare a casa».

Nessuno voleva Paolo Rossi ai mondiali. 
«C’erta stato lo scandalo del calcio scommesse, Paolo si presentò con quattro chili in meno e pochi minuti nelle gambe. Aveva giocato appena tre partite. Insultavano Bearzot perché aveva escluso Pruzzo e Beccalossi. Dicevano che aveva portato ai mondiali i suoi amici».

Non solo critiche, anche torbide illazioni. 
«Una mattina Paolo Rossi si affacciò dalla finestra della camera di Cabrini per salutare i giornalisti. Partì la faccenda grottesca di una loro love story…».

Decideste il silenzio stampa. Mai successo prima nella storia della Nazionale. 
«Dovevamo dare una risposta a tutte queste aggressioni. Bearzot ci lasciò liberi di farlo. Parlò solo Zoff , il capitano, per tutti noi».

Il Brasile di Zico e Falcao era il favorito assoluto di quel mondiale. 
«Mezzo mondo pensava che avrebbero vinto a spasso, anzi ballando. Loro ballavano e toccavano, noi correvamo e legnavamo. Badavamo al sodo».

Cera anche Cesare Maldini in panchina. 
«Cesare era l’opposto di Bearzot. Me lo ricordo con il Brasile, scatenato, che urlava, lanciava la giacca da tutte le parti, altro che Allegri. Bearzot imperturbabile all’apparenza, che tormentava la pipa. Quel giorno Paolo Rossi gli ha restituito tutto».

Sei uscito zoppicando sul 3 a 2. 
«Un dolore cane al polpaccio. Negli spogliatoi ho sofferto come una bestia. Un quarto d’ora d’inferno. Non avevo il coraggio di guardare il piccolo televisore che stava alla porta dello spogliatoio. Alla fine, tutti pazzi di gioia, io zoppo, loro stremati».

I giorni prima della finale? 
«L’attesa infinita. Ma eravamo sicuri di noi. Un gruppo unito, dai magazzinieri ai massaggiatori ai giocatori. Dissi a Bruno Conti: “Pensa, torni a Nettuno da campione del mondo e il sindaco ti fa la strada davanti casa a tuo nome”».

Voi due, gli insonni cronici del gruppo 
«Bearzot mi chiamava “coyote” per questo. Ma anche Oriali e Selvaggi non dormivano in quei giorni. Poi c’era la camera di Zoff e Scirea. La chiamavamo “la Svizzera”. Silenzio monastico e ordine perfetto. Come le loro vite».

Il tuo azzurro mitico prima dell’82? 
«L’Italia del 4 a 3 alla Germania in Messico. La vidi in un piccolo televisore incastrato in un angolo del retrocucina del Grand Hotel Duomo di Pisa, dove facevo il cameriere».

La notte prima? 
«Non ho dormito un istante. Ho passato ore a confessarmi con Enzo Bearzot, la nostra stella polare di quel mondiale. Timori, dubbi, speranze».

L’alba. 
«Davanti allo specchio come da bambino a recitare i nomi dei miei miti di allora. Riva, Mazzola, Rivera. Provavo ad aggiungere Tardelli, ma suonava male. Non c’entrava niente».

Sette secondi: la durata dell’urlo al Bernabeu. Il tuo orgasmo e quello di una nazione. 
«Non ho capito più niente e mi sono messo a correre come un matto, mangiato dall’adrenalina. Se non mi fermavano sarei arrivato a Toledo... Quell’urlo, la cosa più bella che ho fatto, dopo i mei due figli Sara e Nicola».

Ti sei mai sentito negli anni pietrificato nell’urlo, come le vittime di Pompei?  
«C’è stato un periodo in cui mi stava un po’ stretta la cosa. Sembrava che non avessi fatto nulla prima o dopo. Poi ho capito che resterà nella storia per i miei figli e ha dato la felicità a tanta gente».

Qualcosa nella tua storia di calciatore si è avvicinata? 
«Il mio primo gol in serie A. Contro l’Inter. Una gioia immensa. Tutto quel giorno somigliava a quell’urlo».

La prima volta che ti sei affidato a Bearzot? 
«La prima volta che mi ha parlato davvero. Giocavo male, non sapevo amministrare le energie, i giornalisti volevano la mia testa. Bearzot mi prese da parte e mi disse. “Non preoccuparti, fidati di me, gioca semplice e fai quello che ti dico”».

Ti sei fidato e affidato.  
«Quella volta e per sempre».

Enzo Bearzot. Tutti voi lo consideravate un secondo padre. Bruno Conti lo chiamava papà. Eravate una famiglia. Anche José Mourinho evoca spesso la famiglia quando parla dei suoi calciatori.  
«Sono due famiglie diversissime. Bearzot era severo ma rispettoso e onesto con noi. Ti diceva le cose in faccia, ma sempre con il garbo dell’educatore».

Aveva un’idea pedagogica del mestiere di allenatore. 
«Era unico, diverso da tutti gli altri…Forse solo Trapattoni gli si avvicinava un po’ in questo».

La famiglia di Mourinho? 
«Lui è un uomo intelligente e arrogante. Sa comandare e gli piace farlo. La sua famiglia è la vittoria. Se si vince è una famiglia, se non si vince sei…usa tu il termine adatto».

Il tuo padre biologico.  
«Domenico. Faceva l’operaio. Aggiustava le strade. Ma lo stipendio non bastava mai e vendeva formaggi in giro per i droghieri. Amava lavorare la terra, aveva sempre la pelle cotta dal sole».

E tu ami lavorare la terra? 
«Da ragazzo no, non l’accompagnavo nell’orto, ma adesso adoro farlo. Mi manca mio padre. Per proteggere mia madre da un’auto, fu investito e finì in carrozzella. Era innamorato di mia madre. “Senza di lei non potrei vivere”, diceva davanti a noi figli».

La tua storia da calciatore?  
«I miei non volevano. Mio padre non capiva questa idolatria per il calcio. È venuto solo un paio di volte a vedermi allo stadio. Mia madre era un martello. Non voleva proprio».

Non l’hanno spuntata a quanto pare… 
«Avevo in testa solo il pallone. L’alternativa? D’estate facevo il cameriere, chissà, magari mi sarei inventato una rapina (ride). O sarei emigrato, nella tradizione di famiglia. Oggi farei l’allevatore di canguri e sarei un ex della nazionale australiana».

Claudio Gentile, il duro per definizione, ha versato lacrime nella serie di Sky rievocando l’atmosfera di quei giorni. La cosa ha destato scalpore. 
«Si commuove anche nel nostro documentario che presenteremo lunedì a Roma. Gentile che piange sembra, in effetti, una barzelletta».

Lacrime senili? 
«Non direi. È un ricordo, quello dell’82, che ci fa commuovere tutti, sempre».

Anche tu? 
«Assolutamente sì. Bruno Conti era ed è il più emotivo, quello che si commuove più di tutti. Siamo consapevoli che abbiamo lasciato una cosa importante e poi, certo, anche l’età, gli anni che passano, momenti che non torneranno più».

Voi reduci dell’impresa. Cosa ti porti dietro di quella notte di Madrid?  
«La bellezza di ritrovare sempre i miei compagni. Ci è rimasta dentro la voglia di scriverci, sentirci, vederci, al di là degli anniversari e delle celebrazioni».

Con chi ti senti più intimo? 
«Certamente con Dino Zoff. Anche con Paolo Rossi. Che, purtroppo, non c’è più».

Raccontaci perché Dino Zoff è una persona speciale. 
«Ti racconto solo questa, che spiega tutto. Arrivo a 20 anni alla Juve, mi avevano pagato molto. Ero un ragazzino permaloso. Gli anziani un giorno si misero a giocare con me. Mi prendevano in giro. Tornai triste a casa. L’unico che ebbe la sensibilità di capire fu Dino. Mi chiamò nel pomeriggio: “Ma che cazzo stai facendo? Stavamo scherzando, devi imparare a non essere permaloso. Capii allora che mi voleva bene, che era una persona speciale di cui mi potevo fidare».

Paolo Rossi non c’è più e non c’è più nemmeno Gaetano Scirea.  
«Due persone diverse. Gaetano era un leader silenzioso. Non diceva mai niente, ma faceva tanto rumore con l’esempio e con la bontà. Molto umile, sempre pronto a darti una mano. Noi della Juve eravamo fischiati e insultati in tutti gli stadi».

Un ragazzo d’oro. Pensare che uno così sia morto così giovane e di una morte così atroce. Cosa ti passa per la testa? 
«Che a volte qualcuno deve stare più attento...».

Qualcuno lassù con la “q” maiuscola?  
«Esattamente». 

Paolo Rossi.  
«Diverso da Scirea. Sempre allegro, anche se ogni tanto si rifugiava nella sua nuvoletta. Parlava con te e poi ti accorgevi che non c’era più».

Uomo semplice, che proprio non sapeva stare nei panni dell’eroe, meno che mai in quelli della star. 
«Era il primo a non crederci. Ci sono persone che non hai voglia d’incontrare, ma quando incontravi lui eri sempre contento che accadesse. Ti ispirava sorriso e simpatia».

Come siete invecchiati, voi dell’82?  
«Mi sembra tutti abbastanza bene».

Con Fulvio Collovati vi beccate ogni tanto alla Domenica Sportiva. 
«Giochiamo sempre, siamo molto uniti. Fulvio non è invecchiato, resta un ragazzo allegro, ma molto permaloso. Quando hai bisogno, lui c’è».

Gentile, l’uomo tentacolare che ingabbiò Maradona e Zico? 
«Non lo vedo invecchiato, ha ancora un fisico bestiale».

I tuoi 67 anni decisamente improbabili.  
«Non credere, gli acciacchi si sentono…».

Se ti capitasse l’occasione ti tornare ad allenare? 
«Non ci penso proprio. Sto bene così. Quando stavo in panchina ho sempre cercato di comandare, oggi non sarebbe possibile, a parte rarità come Mourinho. Il calcio è cambiato. Gli allenatori contano meno».

Una vita piena di sogni realizzati. 
«E anche irrealizzati».

Dimmene uno. 
«La panchina della Nazionale azzurra. Ci sono arrivato vicinissimo più volte».

Il più grande di tutti? 
«Diego Armando Maradona, senza dubbi. Un torero divino».

Quella sera che sono riuscito a farti cantare in una intervista televisiva… 
«Non mi ricordo…». 

(mi passa Myrta Merlino) 
Myrta, ancora frequenti questo ragazzaccio? 
«Che devo fare... sono innamorata persa… Liliana Segre, mia maestra di vita, sostiene che Marco ha lo sguardo d’amore più forte e granitico che abbia mai visto. E Myrta? chiese Marco. “Abbastanza, ma deve ancora pedalare”, rispose Liliana».

Lui nega, ma sono sicuro di averlo fatto cantare… 
«Vero. Era “L’emozione non ha voce” di Celentano. La nostra canzone».


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