Pelé, un inverno a Riccione

Matrimonio a Parigi, con la silenziosa Rosemary, poi la festa in Riviera con piadina e sangiovese. E la sua gioia genuina: «Io sono nato povero...»
Pelé, un inverno a Riccione© ANSA
Italo Cucci
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Se n’è andato anche Pelé. Ho perduto tutti i miei fratelli speciali, li chiamavo Sogni. Erano campioni, anche di umanità. Nel bene e nel male. E adesso dico basta, non chiedetemi più un pezzo di cuore con la scusa che soffro di Amarcord. (Anzi, già che ci siamo: quando toccherà a me fate finta di niente, lasciatemi in pace, probabilmente trapasserò guardando un mare infinito, e lì ci si perde per sempre; poi, ho rotto tanto i coglioni al prossimo che anche se uno volesse dirmi “bravo” rischio di scatenare tutti quelli che con un esercizio di arroganza mi sono accreditato scrivendo “Un nemico al giorno”; e l’elenco si è allungato insieme ai giorni).  

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Scusate. Tempo fa mi sono incontrato a Milano con Franco Ascani, benemerito della cultura sportiva, e ci siamo detti subito «Ti ricordi Pelé? Speriamo che se la cavi…». Era il 29 ottobre del 2004, Milano, Palazzo Giureconsulti, in occasione dell’“International Festival Sport Movies & Tv” curato da Ascani arrivò Edson Arantes do Nascimento, in grande spolvero, aitante e sorridente come sempre, per presentarci se stesso con la proiezione del film “Pelé eterno”. 

Bella gente, c’era: i medagliati di Atene 2004, con la vezzosa Vezzali in testa, colleghi anch’essi eterni come Candido Cannavò, e le presentazioni si sprecarono. Tutti addosso al mito che tutti accoglieva compiaciuto, non con quell’aria di sopportazione che spesso esibiscono i finti campioni. Ascani mi disse «Vuoi che te lo presenti?». Mi avvicinai insieme a lui alla pedana dei celebranti e appena mi vide Pelé allungò la mano per salutarmi: «Ciao. Come stai? È da un po’ che non ci vediamo…». Trentatré anni. Ci eravamo lasciati nel ’71 dopo una tournée zingaresca - tutti insieme allegramente - fra Toronto, New York e Montreal, con il Bologna di Savoldi, il West Ham di Bobby Moore e il suo Santos. E anche lì, un figurone. Come disse - per i fatti suoi - il mitico “Civ”, Pelé mi riconobbe e mi regalò sempre quelle tre parole «Ciao. Come stai?». Non aggiunse il mio nome, non lo ricordava (come tant’anni dopo a Milano) ma ricordava benissimo quell’autunno grigio e freddo a Riccione trentacinque anni prima…  

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Leggo ogni tanto inutili maestri che en cas de malehur sgridano il coccodrillante perché ricorda se stesso insieme al defunto. Come faccio io. Come se dovessi impegnare le mie povere parole per raccontarvi chi fosse il calciatore Pelé. Lo sanno anche i bambini - soprattutto loro - perché è una favola e “C’era una volta Pelé” si diceva anche quand’era vivo, e a riposo, fra onori e nostalgie. Perché era la favola più bella del calcio. E le favole non si spengono mai.  

Sì, era arrivato a Riccione, il 28 febbraio del 1966, per far piacere a un amico che l’aveva salvato dal fallimento (economico) dopo che il suo procuratore era scappato coi soldi. E l’amico, un birraio tedesco padrone del Monaco 1974, Roland Ender, tutto panza e allegria, l’aveva salvato. Roland gli aveva trovato anche una moglie, la silenziosa e elegante Rosemary Cholby - poi madre di Cristina e Jennifer Kelly, più tardi lasciata per un altro paio di mogli - e siccome passava l’estate a Riccione fece fare alla Perla Nera il viaggio di nozze nella Perla Verde dopo il matrimonio a Parigi. Il “birraio generoso” aveva fatto una gradassata: «Voglio presentarti agli amici di Romagna, il paese più bello del mondo». Noi a quei tedeschi lì siamo affezionati e li chiamiamo “tognini” - teste dure - mentre gli altri sono fermi ai crucchi. I cattivi. L’occasione fu esaltante. Da noi - a Bologna - il calcio dopo lo scudetto ‘64 s’era depresso. Risposi alla chiamata dei riccionesi incredulo poi, quando lo vidi, esclamai come tanti “soccmel!”, che per chi non lo sapesse è espressione di stupore.  

Simpatico, Pelé, la divinità fatta uomo in semplicità, chiacchiere in un mezzo italiano, e ai complimentosi che gli dicevano “scusi, ma abbiamo da offrirle soltanto il nostro inverno” rispondeva sorridendo - sempre - “eu nascí pobre” e Riccione per lui era un lusso. Come Copacabana. Naturalmente la sua visita fece rumore, tanto quanto i fuggevoli passaggi di Garibaldi e del Duce in Riviera. Ma lui era la pace e la più alta espressione calcistica del mondo. E ancora non si parlava di Maradona e non avevamo escogitato la soluzione mediatrice fra O Rei e El Pibe de Oro sottoponendoli alla leggenda di Alfredo Di Stefano la Saeta Rubia.  

Un dettaglio della sua semplicità, l’incapacità di far soldi. Quando ci ritrovammo a Toronto, nel ‘71, e lui era fresco campione del Mondo avendo battuto - di persona - l’Italia, mi disse che grazie a lui il Santos era entrato nella combinazione della tournée con West Ham e Bologna per un buon pugno di dollari. Mentre in Italia i pedatori azzurri strapagati osavano farsi chiamare - ma smisero presto, poi ci ripensò Sacchi - Vicecampioni del Mondo. T’è capè? Capito mi hai?  

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Un altro giorno mi fece assistere a una seduta di massaggi, lui un dio d’ebano sottoposto a una piacevole tortura. Alla fine chiese al massaggiatore “A minha mala” e gli allungarono un valigione nero che sembrava un armadio. “È la mia compagna di vita”. Fui tentato di chiedergli della vita vera, di Rosemary ch’era come scomparsa. Ma fortunatamente evitai. L’unica esagerazione che si concedeva era la donna. Ma a me - ancor oggi ammiratore della composta bellezza di Rosemary - fa piacere conservare una foto che feci con gli sposi felici e la cena romagnola con una rostida di pesce, piadina e sangiovese.  

Di calcio ho parlato poco con Pelé. I mille gol, i successi mondiali, non ne trattava volentieri manco lui. Solo a Toronto tornai sulla finale di Mexico 70 e mi ripetè il suo onesto punto di vista: «Con Rivera e Mazzola insieme avreste potuto batterci. Ci chiedevamo com’era possibile che voi li teneste divisi, noi due così non li avremmo mai separati. E quei minuti finali di Gianni?». Lo chiamava Gianni, come s’usa coi campionissimi. Alfredo, Diego, Gianni, Pablito… Su quei quattrocinquesei minuti avevo scritto anch’io un’Avvelenata. E poi, quel suo gol volante che aveva incantato Brera. Disse Gioânn che Pelé era rimasto appeso al cielo e lui che credeva di avere visto tutto restò affascinato da quel gesto non umano. Una sera fui invitato a Sant’Agata dei Goti a presentare un libro particolare, “Football. Trattato sulla libertà del calcio” di Giancristiano Desiderio. Che diceva “Non è vero che il calcio è la metafora della vita, secondo l’affermazione attribuita a Sartre, ma è la vita la metafora del calcio. Il calcio ha a che fare con la vita e con la morte, ma è molto di più, perché ha una natura antitotalitaria, in grado di mettere in fuorigioco il dispositivo totalitario che c’è nella cultura moderna. Per questo noi non possiamo lasciare il calcio agli addetti ai lavori e nemmeno ai cosiddetti intellettuali”. Beh, fumisterie di fine dicitore.  

Io parlai di Pelé, tornammo nelle favole e la mia conoscenza diretta del Mito restituì il diritto allo scribacchino di calcio di tenermelo insieme a tanti altri fenomeni. (Fenomeno. Vi fa venire in mente qualcuno?). Fu l’osservazione che mi fece Alfredo Di Stefano a Mexico 86 quando scambiammo qualche battuta e gli raccontai del “mio Pelé”. “Tienitelo caro”. Implicitamente mi diceva di ricordare anche lui, “il mio Alfredo“ che nel 1965 mi aveva scritto la prefazione di un libro dedicato a Helmut Haller definendomi pomposamente “el grande periodista” anche se ero un apprendista sportivo e avevo appena sfiorato le sue imprese al Real. Ah, quel semplice «Ciao, come stai?» di Edson Arantes do Nascimento.  
Basta così, Pelé. Il Paradiso è tuo.  


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