Miroslav e Dusan Mihajlovic: “Lazio per sempre. Bologna nel cuore”

Prima di una sera speciale i figli raccontano un papà indimenticabile per tutti
Alberto Dalla Palma
7 min

Sono passati solo trentatré giorni dalla tragica scomparsa di Mihajlovic, Miro ha un sorriso che ti trasmette il coraggio di fare qualsiasi domanda, Dusan ha gli occhi di un ragazzo che si sente tradito dal destino e vorrebbe solo risvegliarsi da un brutto sogno. Sono i figli di Sinisa, i nuovi uomini di famiglia insieme al più piccolo Nikolas, che pure è un gigante di fisico e di coraggio.

La notte del coraggio

«Ci aspetta una notte speciale, vivremo le emozioni dell’Olimpico tutto per papà, laziali e bolognesi insieme, ma anche il dolore di non averlo più accanto a noi. Stiamo provando ad abituarci, ma non è facile», ci raccontano alla vigilia di una partita che ha un sapore diverso. «Noi amiamo queste due squadre, ma la Lazio per noi ha qualcosa in più, speriamo che a Bologna non si arrabbino perché la città e la sua gente ci resteranno nel cuore per sempre». Mihajlovic ha lasciato un vuoto che non potrà essere colmato: giocatore, allenatore, padre, fratello, marito e nonno, ha riempito i cuori come nessun altro. Nel suo ricordo, lo avevamo definito angelo e diavolo, perché Sinisa divideva ma era limpido e coraggioso molto prima che la malattia lo trasformasse in un leone: poteva essere l’uomo più dolce del mondo o il giocatore più cattivo del campionato, ma sempre con la dote degli occhi negli occhi. Ti guardava in faccia, qualsiasi cosa avesse da dire. «Noi figli, maschi e femmine, siamo cresciuti con i valori di un padre fantastico. Lealtà e rispetto, prima di tutto: nel mondo del calcio non sono doti molto comuni, vogliamo riproporre quello che ci ha insegnato e già ci stiamo provando. Può essere anche un modo per ricordarlo in ogni cosa che facciamo». Con la mamma sempre al loro fianco, Arianna. «Papà ci diceva sempre che era l’unica con più palle di lui. Ci sta sostenendo con un coraggio enorme, ora tocca a noi proteggerla perché sappiamo che nasconde il dolore per non intristirci».

I "programmi" dell'indomito Sinisa e i suoi ultimi messaggi

Miroslav ha la forza di raccontarci il giorno precedente all’ultimo ricovero in clinica. Il sorriso non lo abbandona mai, sembra quasi che abbia già la forza di un capo famiglia. «Era una domenica diversa dalle altre, disse a tutti che era felice e si sentiva molto bene. Chiamò un sacco di amici, forse quasi tutti quelli più legati a lui. Ma ci colpirono due chiamate: una a Conte e una a Guardiola, papà stava programmando i suoi viaggi di aggiornamento professionale sui campi del City e del Tottenham. Non so se era un modo per farsi coraggio oppure se era, come ci hanno detto, una specie di canto del cigno, fatto sta che ci sembrava davvero il solito leone. Noi avevamo capito da un mese che si era messa male, ovviamente non ne parlavamo né con lui né tra di noi perché coltivavamo sempre la speranza di un miracolo. Una malattia terribile, il primo trapianto era andato bene, il secondo meno perché dopo una settimana i valori erano già diventati anomali. Quella domenica è stata speciale proprio grazie alla sua voglia di lottare ancora. Era lui, spesso, che ci faceva forza. Siamo arrivati in clinica e abbiamo trovato davanti all’ingresso una carrozzina: papà si ribellò, ma siete matti io cammino da solo, non ho bisogno di aiuto». Un ricordo commovente perché ci sembra di vederlo, Mihalovic, che manda tutti a quel paese e si dirige in camera per affrontare le cure.

Una promessa è una promessa

Si salta da un’immagine all’altra, proprio per celebrare la forza di un uomo che è diventato un’icona per gli altri malati. «Amava talmente tanto il Bologna, che a Verona si presentò in campo senza forze. Nessuno ci sarebbe riuscito, solo lui. Lo aveva promesso alla squadra, alla società, ai tifosi, a tutti noi: e ci riuscì, ancora non sappiamo come. Ovvio che la città è nel nostro cuore e per sempre ci rimarrà perché papà ha scritto pagine importanti della sua storia personale e della storia del club». Dusan annuisce, segue le tracce di Miro e non prova alcun rancore per un esonero sorprendente. «Fu una scelta tecnica, nessuno nel club sapeva che papà sarebbe peggiorato, esattamente come non lo sapevamo noi. Bologna, intesa come città, ha fatto tantissimo per lui, gli ha trasmesso amore e valori, ma anche papà ha contraccambiato con una forza così intensa che non potremo mai pensare di essere stati traditi. Forse, se il club aveva già deciso, avrebbe potuto interrompere il rapporto in estate, prima dell’inizio del campionato. La squadra lo teneva in vita, gli dava la forza di combattere e di andare avanti, per lui era una sfida giornaliera, contro la malattia e per una seconda vita».

L'opportunità Roma e le reazioni della famiglia "laziale"

Un giorno, all’improvviso, Mihajlovic confessò in famiglia che la Roma lo stava cercando per sostituire Di Francesco. Lui, simbolo della Lazio del Duemila, eroe della curva Nord nonostante qualche confronto ricco di tensioni. Ma come era possibile attraversare il Tevere in una città dove la rivalità ti consuma il fegato? Dusan racconta quel momento della rivelazione: «Non puoi andare alla Roma, papà non puoi fare una cosa del genere. Io vado allo stadio, frequento la curva, sono laziale nell’anima: non potrò più uscire di casa se farai questa scelta. Anzi, te lo dico, non esco più di casa e sappi che non potrò mai tifare per la Roma solo perché l’allenerai tu. Io sono della Lazio». E Sinisa gli rispose come un padre severo: «Meglio così, se non esci eviti di fare le tue solite cazzate». In realtà l’operazione saltò nel giro di quarantotto ore. «Sarebbe andato a Trigoria completamente solo, ebbe la sensazione che in pochi lo avrebbero sostenuto anche se da giovane aveva indossato la maglia giallorossa». Pericolo scampato e Dusan, che è stato accompagnato al battesimo da Stankovicun altro pezzo della nostra vita»), ricorda perché è diventato laziale. «Io sono nato dopo lo scudetto del Duemila, ho visto sempre e solo immagini di papà con la maglia biancoceleste. Io mi sono innamorato dei tifosi e, ovviamente, della squadra. Sono cresciuto in curva Nord». Non Miro. «Ho un carattere diverso, io sempre laziale ma in altri settori dell’Olimpico. Adesso allo stadio porto anche Nikolas, che è il più piccolo. I miei idoli sono Klose, di cui quasi porto il nome, e Romagnoli che papà volle a tutti i costi al Milan». Ha un sogno, che fa venire i brividi solo a pensarci. «Sto per laurearmi, come Virginia, e i prossimi saranno Dusan e Viktoria perché lui desiderava che ci impegnassimo negli studi. Inutile provare a giocare: se sei figlio di un grande calciatore, o hai le palle e il talento di Chiesa o di Maldini che stimo oltre ogni limite, oppure sei destinato a fallire e a essere insultato ovunque. Voglio iscrivermi subito al corso allenatori per realizzare un desiderio che papà non è riuscito a celebrare: alzare un trofeo in panchina». Lazio e Bologna non se lo facciano sfuggire, la famiglia Mihajlovic è un loro patrimonio per sempre.


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