Buon compleanno Ghiggia: fu l'eroe del Maracanazo

L'autore della rete che fece piangere il Brasile e regalò all'Uruguay il Mondiale del '50 compie oggi 88 anni: il racconto di quel giorno
Adriano Lo Monaco
9 min
ROMA - «Non guardare mai le tribune, la partita si gioca qui sotto». Le parole di Obdulio Varela suonano quasi come una minaccia ad Alcides Ghiggia. È il 16 luglio del 1950 e al Maracanã di Rio de Janeiro si sta disputando la finale dei Mondiali di calcio. O meglio, è l’ultima partita del triangolare finale, stando al regolamento dell’epoca. Ufficialmente sono presenti 174.000 spettatori, ma c’è chi sostiene che siano addirittura in 200.000. Brasile contro Uruguay. Non è uno scontro tra titani, sono tutti sicuri che i padroni di casa avranno la meglio. Basta solo un pareggio. La torcida brasiliana festeggia già dal mattino. I giornalisti hanno addirittura palesato prima della finale il miglior giocatore del torneo, il numero uno della Seleçao Moacir Barbosa. Jules Rimet ha in tasca il discorso in omaggio del Brasile campione e i dirigenti uruguaiani chiedono solamente di perdere con onore. Obdulio Varela è il capitano dell’Uruguay. Il classico volante sudamericano incaricato di stroncare il gioco avversario, rude e tecnicamente mediocre, ma con il carisma del miglior Gengis Khan. El negro jefe, il capo nero. Lo chiamano così. Solo uno sguardo per convincere i compagni. Prima del calcio d’inizio l’arbitro inglese Reader lancia la monetina per far decidere ai due capitani quale sarà la squadra che darà il via alla finale. Varela non la lascia cadere per terra, la afferra e la restituisce al giudice di gara: «Noi oggi diventeremo campioni del mondo, quindi dia ai brasiliani la consolazione di battere il calcio di inizio o di scegliere in quale metà campo giocare».

LA FINALE - Il primo tempo sentenzia già una mezza sorpresa. È solo zero a zero e il Brasile non dà l’impressione di essere quella squadra imbattibile di cui tutti parlano. Per l’Uruguay anche un pareggio sarebbe un risultato straordinario quanto insperato. Eppure c’è qualcuno che trova il coraggio di lamentarsi, di far notare ai compagni lacune ed errori. È il capitano Varela, che inveisce contro Schiaffino.

- «Se vuoi fare il modello hai sbagliato indirizzo. Per essere un grande calciatore bisogna avere i coglioni, non essere un coniglio pavido e codardo».

- «Hai ragione Obdulio, scusami».

- «No, non è con me che devi scusarti».

- «Hai ragione Obdulio: scusatemi, ragazzi».

All’inizio del secondo tempo le profezie dei giorni precedenti sembrano avverarsi. Il tiro di Friaça supera Máspoli e il Brasile è finalmente in vantaggio. Qui inizia la vera partita di Varela. Con la massima calma si avvia verso la porta e raccoglie il pallone. Per la prima volta guarda i 200.000 del Maracanã, li sfida senza paura. Fischi dagli spalti, insulti dai giocatori brasiliani. C’è anche chi gli sputa, ma lui non fa una piega e con l’andatura di una lumaca agonizzante si rivolge all’arbitro, pur sapendo di avere torto: «Signor Reader, il gol era in fuorigioco». La scena è comica. Varela parla in spagnolo, Reader in inglese. Sfruttano l’aiuto dell’interprete a bordo campo. Quando capisce che l’arbitro sta per inalberarsi decide di chiudere con la farsa e di tornare a giocare, non prima di aver riguardato le facce rabbiose dei sostenitori della squadra di casa. È l’istante in cui prende vita quello che sarà poi chiamato il disastro del Maracanã. Il gesto di Varela regala ai compagni la consapevolezza di potercela fare, la consapevolezza che non esistono storie già scritte e che a è perduto. Raccontano che, prima della partita, Obdulio abbia detto ai compagni: «Oggi la vinciamo. Loro giocano coi piedi, noi col cervello. Io quando sono in campo per vincere picchierei anche mia madre, se me lo impedisse!».

GHIGGIA - Sono passati diciannove minuti dal vantaggio brasiliano. A tenere palla, adesso, è il numero sette della Celeste. Si chiama Alcides Ghiggia e non sa ancora di essere il protagonista del Maracanaço. Corre a pieni polmoni, utilizza il repertorio di Houdini per superare il difensore avversario e mette il pallone in mezzo. In area c’è Schiaffino che ricorda il monito del capitano e supera Barbosa. Pareggio dell’Uruguay. Varela guarda i due compagni e sorride. Il Maracanã, nel frattempo, è una moglie offesa che ostenta indifferenza perché sa che un pareggio basterà per dare inizio alla festa. I brasiliani hanno fatto male i conti, nella loro testa soltanto la voglia di umiliare gli avversari. Cominciano a litigare ad ogni passaggio sbagliato e il loro gioco perde in organizzazione e lucidità. Anche i bambini hanno imparato che nel calcio, senza armonia, non si va da nessuna parte. Ghiggia capisce che è un’occasione troppo ghiotta per non creare un legame indissolubile tra il suo nome e quel giorno. Riceve palla da Julio Pérez (su suggerimento di Varela) ed entra in area di rigore. È defilato sulla destra e al centro ci sono tre compagni di squadra pronti a ricevere il pallone. Barbosa, il portiere del Brasile, accenna l’uscita e la piccola ala numero sette, fiutando il pertugio venutosi a creare tra palo e portiere, opta per il tiro. Il genio si manifesta in una frazione di secondo. Gol. Brasile-Uruguay 1-2. Mancano poco più di dieci minuti, ma la partita si decide qui. Fine e inizio della storia.

IL DISASTRO - Il Maracanã si ferma, abbracciando da una parte le lacrime silenziose dei 200.000 e dall’altra il frastuono delle ambulanze che soccorrono i tifosi colti da infarto. Piangono tutti, brasiliani e uruguaiani. Il clima è surreale. Lo stesso Obdulio è incredulo. Realizza quando fissa per cinque interminabili minuti i lacci dei suoi scarpini, ripercorrendo a mente gli episodi della partita appena terminata. Jules Rimet sta salendo il tunnel del Maracanã. In braccio ha la coppa, ma si ritrova solo e imbarazzato. Scorge la figura di Varela e, quasi di nascosto, gli consegna la statuetta d’oro. Nemmeno una parola di congratulazioni. Nessuna premiazione e nessun inno. Alla banda musicale non era stato consegnato lo spartito dell’Orientales, la patria o la tumba perché credevano fosse inutile. La stessa sera la nazionale uruguaiana si trova in albergo rapita dal vortice dei festeggiamenti, ma a un certo punto si accorge che manca la pedina fondamentale di quel trionfo. Obdulio Varela è in giro per i bar di Rio insieme al massaggiatore. Beve e piange insieme ai tifosi avversari. Non riesce a darsi pace, sente il dramma di queste persone che proprio lui ha ridotto così. Anni dopo dirà: «Se dovessi giocare di nuovo quella partita mi segnerei un gol contro». Nei giorni successivi in tutto il Brasile continuano ad arrivare notizie di suicidi. Confusione e scelte irrazionali. La Confederazione di calcio della Seleçao rinuncia alla divisa bianca e adotta quella che ancora oggi vediamo. La stampa si scaglia con violenza contro tecnico e giocatori e il povero Barbosa, per la defaillance sul gol di Ghiggia, viene additato come traditore della patria. Lasciato inerme sul prato del Maracanã, dimenticato e infamato fino al giorno della morte. «Negro!» gli urlano con disprezzo. «È Barbosa, quello che ci ha fatto perdere la coppa. Stanne alla larga, porta iella». L’umiliazione più grande la subisce nel ’93 quando, durante le eliminatorie per il Mondiale negli States, decide di andare in visita presso il ritiro della Nazionale brasiliana. Le autorità gli negano l’ingresso, ma lui trova la forza per dire queste parole: «In Brasile la pena massima per un delitto è trent’anni di galera, ed io da più di trent’anni sto pagando per un delitto che non ho commesso». Una fitta trama di destini incrociati. Probabilmente nessun evento come il Maracanaço è riuscito a dispiegare una tale concentrazione di gioie e dolori, di positività e negatività. Obdulio con i soldi del premio comprò una vecchia Ford che gli rubarono dopo appena una settimana. Finì per essere un posteggiatore abusivo in balia dell’alcol. Morì nel 1996 e l’allora presidente dell’Uruguay, Julio María Sanguinetti, gli organizzò i funerali di stato per omaggiare chi aveva portato così in alto il nome di questo piccolo paese sudamericano.

«HO ZITTITO IL MARACANû - Ghiggia andò in Italia a giocare per Roma e Milan, timbrando qualche presenza da oriundo nella Nazionale azzurra. Ebbe anche il coraggio di tornare a Rio dopo quel giorno. All’ufficio arrivi dell’aeroporto gli si fece incontro una ragazza.

- «Ma lei è Ghiggia?»

- «».

- «Quello del ’50?»

- «Sì, ma ormai è passato un sacco di tempo».

- «Non per noi, qui (indicando il cuore) fa ancora male».

Alcides Ghiggia, la piccola scheggia che fece piangere una nazione intera: «Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanã. Frank Sinatra, Papa Giovanni Paolo II e io». Il 21 novembre del 2013, prima di Uruguay-Giordania (il match che ha regalato agli uomini di Tabarez la qualificazione mondiale), Ghiggia è sceso in campo con la maglia del '50 e dopo aver assistito su un maxi schermo al gol che ammutolì il carnevale carioca ha ricevuto, tra le lacrime, il tributo del Centenario di Montevideo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA