Il brutto finale per soli maschi

Il brutto finale per soli maschi© Juventus FC via Getty Images
Alessandro Barbano
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Il 9 giugno di un anno fa la Nazionale di Milena Bertolini contro ogni pronostico batteva per 2 a 1 l’Australia ai Mondiali, mentre sette milioni di italiani la guardavano in tv. Un anno dopo, nel giorno in cui il calcio si dà le regole per la ripartenza, l’interruzione definitiva del campionato femminile è un terribile autogol, che si sarebbe dovuto e potuto evitare. Il disvalore simbolico di questo stop è di tutta evidenza: tra le luci che riaccendono lo sport non c’è la fiaccola delle atlete, in un Paese in cui la parità delle donne è ancora un miraggio, e in un momento storico in cui la lotta contro ogni discriminazione torna al centro delle battaglie collettive e dell’agenda politica.

Il calcio che si riempie la bocca di belle parole contro il razzismo fa fatica a comprendere che la disparità di genere è un razzismo altrettanto grave. Anche se assecondato, inconsapevolmente, dal sindacato delle calciatrici, con un comunicato infelice, che boccia playoff e playout al grido di «O tutte, o nessuna!».

Non vale la spiegazione che il calcio femminile resta, a dispetto delle migliori intenzioni, uno sport dilettantistico, destinato, di fronte all’emergenza del coronavirus, a soccombere alla scarsità di risorse. La Federazione e la Lega avrebbero dovuto - e possono ancora farlo - impiegare fondi e mezzi per sostenere la ripresa del campionato. Magari affidando il destino dei club più fragili a un tutoraggio specifico. Ma, tra i tanti vertici fin qui convocati per regolare i conti dello scudetto e della retrocessione tra Agnelli, Lotito e Cairo, ce n’è stato uno che riguardasse le donne? È in queste occasioni che il movimento sportivo può dimostrarsi una grande macchina della condivisione e della solidarietà, o piuttosto una giungla dei più forti.

Se il calcio riparte, sfidando divieti irragionevoli, interessi in conflitto e calcoli meschini, è perché ha, dalla sua, la forza delle buone ragioni. Che sono economiche, ma anche civili e, in senso metaforico, spirituali. La passione e la lealtà sportive sono la sua vera fonte di legittimazione. Su queste leve il presidente della Figc, Gabriele Gravina, ha vinto la battaglia contro il partito del no. Adesso, prima che sia troppo tardi, riconvochi le componenti del calcio femminile in una riunione ad hoc, e costruisca, con la stessa perseveranza fin qui dimostrata, una soluzione onorevole. Un finale per soli maschi è l’ultima cosa di cui si sente il bisogno.


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