Conte, il paradosso di nome Eriksen

La società ha preso il campione danese per vincere subito ma il tecnico lo sta gestendo come se avesse un tempo che non ha
Conte, il paradosso di nome Eriksen© Inter via Getty Images
4 min

Antonio Conte passato in una giornata dal primo al terzo posto vive prigioniero di un paradosso. Chiedeva acquisti di qualità per tenere l’Inter sulla rotta giusta ma il più prezioso di tutti, ora, non lo fa giocare. Christian Eriksen è una buona prospettiva da cui guardare l’allenatore rientrato in Italia per portar via lo scudetto alla Juventus. In totale aderenza alla maniera in cui lo disegnano e in cui si lascia disegnare, Conte non era contento prima del mercato e non è contento adesso. Se esistesse uno stato intermedio, sarebbe infelice pure là. Marotta che lo conosce dai tempi del ristorante da 10 euro lascia fare. Abbozza. Sorvola. Incassa. Lo fa per fede. Nessuno più di lui sa che cosa la ferocia di Conte sia in grado di aggiungere alla classifica di una squadra. Eppure Conte conosce il calcio da quarant’anni. Non devono certo spiegargli che uno stesso tratto caratteriale può passare per una virtù o per un limite. La furia passa per uno stimolo che smuove una squadra quando rimonti, per un’ossessione che la frena se vieni rimontato. Un mucchio di difensori in area può diventare la scelta di un prezioso custode di un calcio tradizionale se vinci o il giradischi rotto di un calcio antico quando perdi. È tutto qua. Siamo dentro un mondo che vive di deduzioni essenziali. La narrazione più diffusa del calcio viaggia su binari semplici. Lungo questa tratta elementare, gli Eriksen di Conte sono due. Quello che entra al 66’ della partita contro la Fiorentina in Coppa Italia e un minuto dopo vede andare in gol Nicolò Barella; oppure quello che esce a Udine al 58’ sullo 0-0 e dalla panchina, con Brozovic in campo, vede segnare due gol ai suoi. Dall’Eriksen a cui bisogna credere e dall’Inter a cui si deve dare credito, dipendono una serie di risposte, prima di tutto tra i pensieri di Conte. Eriksen è un signor giocatore ma si ferma qualche gradino prima della parola fuoriclasse. Ha 28 anni e non si è fuoriclasse nella Serie A di oggi a quell’età.

La presentazione alla Scala è stata una brillante idea di uno dei migliori uffici comunicazione del calcio italiano, ma comunicazione e realtà non viaggiano sempre insieme. L’Inter si è infilata da sola in una contraddizione che vale per due. Se un giorno arrivasse Messi, dove lo porterebbero? Se Eriksen è un tenore, perché non lo lasciano cantare? Conte crede sia ancora tempo di panchina. È un 10 non abbastanza tale da spingerlo a cambiare tutto il resto. Non nella sua versione attuale, almeno. Non c’è alcun dubbio allora sul fatto che sia l’Eriksen di Udine a vivere impresso dentro gli occhi di Conte. Nel suo mondo ideale sarebbe un giocatore per fettamente sovrapponibile al Sensi di settembre, un palleggiatore raffinato da sistemare di fi anco a Brozovic per dare profondità al passaggio nella maniera più rapida. Eriksen saprebbe farlo perché ha vocazione al calcio moderno, all’interpretazione liquida dei ruoli. È forse il suo pregio tattico maggiore, saper partire da laterale o giocare tra le linee, da trequartista o da mezzala.

Il punto vero è un altro. Eriksen, comunque sia, non è Vidal. Eriksen sballa la concezione della linea a cinque, un caposaldo del calcio di Conte. Quanto Conte sia disposto a cambiare e a mettersi in gioco per Eriksen è chiaro. Nulla. Almeno oggi. Qui sta il paradosso.

Leggi l'articolo completo sull'edizione odierna del Corriere dello Sport


© RIPRODUZIONE RISERVATA