Juve, perché Vlahovic non è Cristiano Ronaldo

Juve, perché Vlahovic non è Cristiano Ronaldo
Alessandro Barbano
4 min

Non ci sono soldi, ma ci sono sogni. E i sogni si possono prendere a debito. Vlahovic è il sogno del risorgimento bianconero. Può valere la Champions e garantire la rifondazione. Ha ventidue anni, tra cinque, quando scadrà il contratto ormai pronto alla firma, potrebbe aver già dato tanto e valere più di quanto è costato. Con un ossimoro abbiamo definito il suo acquisto un’operazione di azzardo calcolato. La componente di rischio riguarda il futuro agonistico del centravanti serbo e il contributo che i suoi gol potranno dare al successo della Juve. Sulla prima questione parlano gli ultimi due anni nella Viola e, più di tutto, un giudizio del tutto positivo sulla tenuta caratteriale dell’atleta. Ma l’entità dell’investimento, di molto superiore ai cento milioni, impone come contropartita una risposta sportiva importante, non solo in termini individuali, ma rispetto ai risultati che la squadra di Allegri otterrà in Italia e in Europa. Senza la garanzia degli ottavi di Champions, l’ingaggio di Vlahovic potrebbe trasformarsi in un salto nel vuoto. Che giungerebbe a ruota dopo il triennio, finanziariamente non esaltante, di CR7

Le due operazioni, però, sono figlie di filosofie diverse. La scommessa su Ronaldo aveva sì, come presupposto, il successo in Europa, ma la sua redditività era legata anche ai profitti del marketing attivabile attorno alla popolarità del top player portoghese. Il flop in Champions e la pandemia hanno ribaltato i piani del management bianconero. E hanno mostrato quanto possa fare danno una scommessa finanziaria a cui non corrisponda un investimento patrimoniale. Tale è invece a pieno titolo l’acquisto di Vlahovic. Se l’attaccante risponderà alle attese, ripagherà i costi sostenuti e il maggior valore del suo cartellino incrementerà il patrimonio del club. 

Il centravanti arriva a Torino nel cuore di una transizione difficile, nella quale la dirigenza dirigenza bianconera è chiamata contemporaneamente a costruire un nuovo ciclo mentre ne smonta uno vecchio. Quest’ultima è l’impresa più difficile: disfarsi dei mediocri comprimari presi a corte negli ultimi tre anni, e gratificati con stipendi irragionevolmente gonfiati come riflesso dell’effetto Ronaldo. 

In questa cornice s’inquadra il futuro di Paulo Dybala, gioiello tanto bello da guardare quanto fragile - come racconta il soprannome «Joya», attribuitogli da un giornalista argentino -, candidato da anni alla leadership senza mai essere diventato veramente leader. Nella navigazione al buio dell’era ronaldiana, la Juve voleva disfarsene, credendo di aver preso sostituti adeguati. La caparbietà dell’argentino fu più forte dell’esilio già confezionato da Paratici per lui. A dispetto degli infortuni e della difficoltà di giocare davanti a un centrocampo scadente, Dybala è quel poco di spettacolo che resta ad Allegri. È ragionevole che la nuova dirigenza bianconera provi a trattenerlo senza svenarsi. Ma sarebbe un peccato se il sacrificio dell’argentino fosse stato messo in conto, con superficialità, come il prezzo da pagare per avere Vlahovic. Anche le ristrutturazioni più radicali, e tuttavia più riuscite, non rinunciano a salvare le fondamenta sane. Dovrebbe saperlo Maurizio Arrivabene. Prima di affermarsi come dirigente d’azienda, l’ad della Juve voleva fare l’architetto. Non cada nella tentazione, che una maldicenza comune rimprovera a questa categoria, di far cadere il palazzo per rifare la facciata. 


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