ROMA - «Puoi scegliere: o metti la testa sotto la sabbia e cancelli tutto, oppure ti metti l’elmetto e vai in guerra, sapendo che sarà una guerra nucleare e tu avrai un fucile ad elastici. Ma non partirai battuto. Di una cosa sono certo: ti faranno smettere di arbitrare». Estate del 2006, l’avviso di garanzia consegnato a Coverciano poche ore prima, la corsa nella sua Arezzo, dove chiamarsi Bertini significa avere “il” e non semplicemente “un” nome. Paolo è arbitro internazionale, ha 95 partite in serie A, in ambito Uefa il prossimo passo sarebbe stata la Champions League.
TIZIANO PIERI: «IMPOSSIBILE DIMENTICARE»
MUGHINI: «CALCIOPOLI? INTER SCUDETTO DI M...»
Calciopoli 10 anni dopo. Se ne può parlare in che maniera?
«Sicuramente non in maniera leggera, questo no. In maniera diversa, magari sì. Perché sappiamo che è finita e anche come è finita. Ma ci sono voluti nove anni. La mia vita, una parte della mia vita, è stata spazzata via. Lo sapevo anche dieci anni fa che ero innocente, ma ora è stato certificato pure dalla giustizia, tutta insieme, quella sportiva e quella penale. Bene, chi mi restituisce quello che ho perso?».
LANESE: «ERO IL GARANTE DEI MIEI ARBITRI»
FOTO JUVE-INTER E LO SCUDETTO DI CARTONE
Calciopoli in una parola è?
«Un paradosso. Anzi, tre paradossi in uno. Che mi hanno sconvolto la vita».
Si sarà dato una spiegazione....
«No e non ho trovato aiuto neanche dalle carte. Calciopoli nasce perché la Juventus e i dirigenti della Juventus dovevano essere il Diavolo ed invece l’unica partita diciamo così “certificata”, per la quale viene condannato un solo arbitro (De Santis, ndr) è Lecce-Parma, con la quale la Juventus non c’entra nulla. Mah...»
Ma allora, perché è nata?
«Di sicuro non è nata per far smettere di arbitrare Paolo Bertini. Anche se così è andata, ed è stata un’ingiustizia».
Torniamo ai paradossi, addirittura tre...
«Pesanti anche da mettere insieme. Prendete i danni che ho subito. Sono stato assolto, con la formula più ampia, eppure nessuno si è mai speso. Mi sarei aspettato che l’Aia attendesse le sentenze sportive: con me non l’ha fatto, con altri sì. Hanno tirato un rigo: chi era dentro, era dentro, chi era fuori era fuori. Nel 2008, quando il processo sportivo per le sim svizzere non si era ancora svolto, Gussoni ha inviato una lettera a chi ci guidava, ai presidenti delle sezioni degli arbitri interessati. Bene, io ho querelato Gussoni, che da un punto di vista penale ha goduto della prescrizione. Io invece alla prescrizione ho rinunciato.... E la Federcalcio? Dopo avermi assolto, si è presentata come parte civile contro di me nel processo di Napoli. Vi pare normale?».
Paradosso numero due, please....
«Mi sono potuto difendere grazie all’avvocato Messeri, che per me è solo Mauro ed è mio cugino. Nessuno avrebbe potuto sostenere 62 udienze a Napoli, nove anni di processo, se non ci fosse stato lui. E’ stato lui a dirmi: questo è un processo “prescritto” prima ancora di nascere, devi decidere tu. E qui arriva il terzo paradosso».
Cioè?
«Per avere la normalità, cioè per vedermi riconosciuto quello che la Cassazione stessa ha sottolineato dovesse essere evidente già in primo grado, ho dovuto fare lo straordinario. Mi sono dovuto comportare come un folle, perché solo un folle rinuncia alla prescrizione».
Perché lo ha fatto?
«Perché ero innocente. Perché vivo ad Arezzo, un paese più che una città, dove ci si conosce tutti. Lavoravo in banca, l’ho fatto per 26 anni, gestivo i soldi della gente, pensate potesse essere facile continuare a farlo con quelle accuse? L’ho fatto per la mia famiglia, quante ne ha dovute sopportare mia moglie Daniela. E mio figlio Tommaso, che aveva 8 anni e che, rispetto a Elena che ne aveva tre, era più vulnerabile. A scuola di che volete si parli, a quell’età, se non di calcio? Per fortuna sapeva bene chi era il suo papà».
Cosa non perdonerà mai?
«Che mio babbo è andato via senza poter vedere suo figlio assolto. E’ stato per 60 anni nell’Aia, ha fatto cento gare in A, era stato l’assistente di Agnolin e Casarin, era in terna con Ciulli di Roma. Anche per questo, speravo che l’Aia non mi trattasse così, più per lui che per me. Vederla ora, con occhi diversi, quell’Associazione nella quale sono stato 30 anni, non la rimpiango affatto».
Due flash di quel periodo, era tutto contro.
«Essere in una piccola città è anche un vantaggio. In tanti mi sono stati vicini. A cominciare dal sindaco di allora, Giuseppe Fanfani, nipote dell’Onorevole. “Paolo, conosco te e il tu’ babbo, sono convinto che si risolverà. Tieni duro!” mi disse. E poi il capo della Mobile di Arezzo, che in piena bufera intercettazioni, mi chiamò proprio al telefono: “Ti conosco, non hai mai fatto quello di cui ti accusano”».
Detta così, però, Calciopoli sembra un’invenzione...
«C’era una serie di rapporti, magari sconvenienti, ma c’erano e lo sapevano tutti. Perché con il sorteggio, con due designatori voluti da squadre diverse, era necessario tenere i canali di comunicazione aperti, ce lo disse direttamente il presidente Carraro. Io parlavo con i miei designatori tre, quattro volte a settimana. Eppure su 171mila telefonate ce ne fosse stata una.... E poi, vista la leggerezza con la quale parlavano di certe cose, possibile non parlavano anche del resto?».
Ha mai più arbitrato?
«Due volte un triangolare di vecchie glorie dell’Arezzo e a Milano Marittima il beach soccer. Sì, mi fa ancora effetto. Una cosa questa storia non ha rovinato».
Prego...
«La passione per il calcio, ne sono ancora innamorato».