Champions League: Uefa, siamo capaci di uscire da soli

Champions League: Uefa, siamo capaci di uscire da soli© ANSA
Ivan Zazzaroni
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Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. Primo indizio, il rigore non concesso alla Juve a Oporto. Il secondo, quello non assegnato alla Lazio sullo 0-1 (fallo di Boateng su Milinkovic-Savic). Ieri la prova: l’assurda espulsione di Freuler dopo meno di venti minuti. Avversari il Porto, il Bayern e un Real dimezzato dagli infortuni e storicamente aiutato (alla catalana, Asì gana el Madrid!), esponenti della nobiltà europea. Desidero ricordare all’Uefa e al suo designatore (in tribuna a Bergamo) Roberto Rosetti - italiano: dagli amici mi guardi Iddio - che dall’Europa siamo in grado di uscire da soli, non è necessario che ci venga continuamente indicata la porta. Abbiamo già i nostri guai, i nostri difetti, le nostre incoerenze, evidenziate dall’atteggiamento che teniamo in campo: le squadre italiane giocando lavorano, con le tensioni, il peso e gli effetti che ne derivano, le altre si divertono.

Siamo un insieme di paradossi: la prima in serie A, l’Inter, è fuori tanto dalla Champions quanto dall’Euroleague. La seconda, il Milan, ha appena pareggiato 2 a 2 a Belgrado, in Europadue, con una Stella Rossa che non è neppure lontana parente di quella che trent’anni fa vinse la coppacampioni. La terza, la Juve dei nove scudetti consecutivi, ha perso in Portogallo costringendosi alla rimonta e non più tardi di sei mesi fa è uscita agli ottavi con il Lione di Garcia. Quarta è la Roma, che ha brutti ricordi della prima settimana d’agosto con il Siviglia. Un punto sotto c’è l’Atalanta, il nostro orgoglio, che soltanto nei secondi conclusivi della partita di ritorno con il miliardiario Psg si vide strappare dal libro delle imprese la pagina più esaltante. Della Lazio abbiamo registrato con angoscia la caduta. E il Napoli, al momento settimo, non ha avuto un posto in Champions e stasera rischia di salutare l’Europa per colpa o merito della nona di Spagna.

Tra i paradossi italici figura anche l’autocondanna che ogni anno si infligge la dirigenza juventina: vincere la Champions partendo dal decimo fatturato europeo (fonte Deloitte 2021). Nelle ultime dieci edizioni, ovvero dall’ultimo successo italiano (l’Inter di Mourinho e Moratti) in avanti, la coppa più prestigiosa è andata 4 volte al Real (2014, 2016, 2017, 2018), che ha il secondo fatturato, due a testa al Barcellona (2011, 2015), leader nei ricavi con 840 milioni, e al Bayern (2013, 2020), quarto, una al Liverpool (2019), settimo, e una al Chelsea dell’oligarca (2012), nono. Crac finanziari a parte delle due spagnole, pensare che la Juve abbia la capacità finanziaria di arrivare fino in fondo è irragionevole: rivincere la coppa sarebbe in effetti un’autentica impresa. Anche la semifinale, raggiunta più volte, lo è stata.

C’è dell’altro. Ogni anno le nostre squadre-guida allestiscono organici di 25 giocatori, e anche di più, per affrontare ambiziosamente le tre competizioni e al tempo stesso centrare l’obiettivo qualificazione alla Champions successiva, ma quando non superano la fase a gironi, dopo l’iniziale scoramento e la valanga di guano che si abbatte su tutti i protagonisti, incoraggiano quella sorta di condivisione del dolore che porta a indicarle “finalmente libere” di puntare allo scudetto. Non si registrano atteggiamenti analoghi negli altri tre Paesi top dove anche la stampa evita di favorire discorsi consolatori. E poi, non dimentichiamolo, siamo il torneo dei grandi vecchi. Il capocannoniere ha appena compiuto 36 anni eppure dai suoi slanci dipendono i destini della Juve. Dove over 30 sono anche i difensori più importanti, Bonucci e Chiellini. Ibrahimovic, 40 a ottobre, è certamente il giocatore più condizionante del Milan, alle prese attualmente con la polemica sulla partecipazione al festival di Sanremo (perché, quando un mese fa si seppe della sua presenza all’Ariston, nessuno obiettò?), il miglior attaccante del Napoli, Mertens, di anni ne avrà 34 a maggio, e quello della Roma, Dzeko, 35 a marzo. Il severo giudizio di Fabio Capello - «la serie A non è un campionato allenante» - è purtroppo centrato: quando i nostri big si misurano con le squadre europee vengono spesso ridimensionati. Penso allo stesso Lukaku, a Milinkovic-Savic, a Immobile e a tanti altri. Da allenante a alienante in fondo è un attimo.


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