Ancelotti e Mourinho, chi è grande non smette mai di esserlo

Ancelotti e Mourinho, chi è grande non smette mai di esserlo
Ivan Zazzaroni
5 min

Il quattro volte campione della Champions e cinque di tutte le leghe che contano è andato a letto alle 7 del mattino. A mezzogiorno era già sveglio, o forse lo è sempre stato: vinci e dormi poco, perdi e non dormi. Subito qualche telefonata agli amici, un numero imprecisato di messaggi di risposta a colleghi, dirigenti e ex compagni, da Mou a Malagò, da Allegri a Mazzarri, a Conte, solo complimenti e affetto sinceri, e l’organizzazione del viaggio di ritorno in Italia della figlia. Le ore della consapevolezza. Prima della grande festa Real.  

La solita, straordinaria leggerezza, come se nulla di enorme fosse accaduto. Nel primo pomeriggio, mentre stavo tornando da Parigi, mi ha inviato un video con tanto di commento (“Che ballerino!”), il balletto improvvisato al centro del campo insieme a Camavinga, Valverde, Rodrygo e Vinicius Junior. Vivere con semplicità e pensare con grandezza. Carlo Ancelotti si ritrova nelle parole di Wordsworth.  

È difficile inseguire l’originalità quando si parla di un allenatore che ha avuto più vite - successo, pausa, ripartenza o contropiede alle critiche, successo -, si è raccontato ed è stato raccontato centinaia di volte e nelle due vite ha vinto il mai vinto da altri. Prima dello stop coinciso con la fine del rapporto col Bayern, in una sola occasione Ancelotti era rimasto fermo per mesi: dopo il Parma di Calisto Tanzi e fino alla “prenotazione” di Moggi per la Juve. Il tramite, Nardino Previdi, un secondo padre al quale Carlo era molto legato e che in seguito, nella stagione del primo Real, venne “integrato” da Ernesto Bronzetti. Ricordo che, pur di tornare a lavorare, Carlo era disposto a trasferirsi in Turchia, al Fenerbahçe, dove l’avrebbero coperto d’oro: Previdi lo dissuase ed ebbe ragione.  

La seconda parentesi è stata più lunga e fredda di quella del ’98, al punto che Carlo ha addirittura temuto di non trovare più una squadra: in Italia aveva allenato Juve, Milan e più volte era stato inutilmente cercato dall’Inter di Moratti; in Inghilterra aveva guidato il Chelsea e le panchine di City, United e Liverpool erano ancora solide; la militanza nel Real con il successo in Champions gli precludeva il Barcellona e anche in Germania, oltre al Bayern, nel quale aveva lavorato e vinto, non c’era altro. A sorpresa arrivò la proposta di De Laurentiis: per evitare distrazioni e consigli non graditi fece tutto di nascosto dal suo mondo, assistito esclusivamente da un avvocato di Parma, lo stesso che aveva seguito la separazione dalla moglie Luisa. Dopo il Napoli – sappiamo com’è andata ma anche che lo lasciò qualificato agli ottavi di Champions – un’altra scelta singolare, l’Everton: pur non potendo operare sul mercato poiché il club era sottoposto ai vincoli della Uefa, riuscì a completare una stagione positiva.  

Infine quel «se volete torno io» buttato lì in un giorno di maggio 2021 al direttore del Real, autoinvito che gli ha riaperto le porte per la leggenda. Una second life simile a quella di Mourinho che dopo l’esperienza poco esaltante al Tottenham - senza aver avuto la possibilità di fare acquisti importanti e di giocare la finale conquistata in Coppa di Lega - non individuando porti raggiungibili in Premier e Liga, ha scelto Roma. Per ripartire. Vincendo. La Conference non è la Champions, ma José e Carlo sono fatti della stessa pasta. E quando uno è grande non smette mai di esserlo.  

A Ancelotti è servito - eccome - anche esser piccolo, perdere, trovare critici malevoli che sembra ti aspettino al varco. Come quelli della Juve d’antàn o del Napoli dell’altro ieri. Quelli del bollito. Quelli che non sanno che è il miglior piatto emiliano e raccoglie qualità assoluta e frattaglie, come il lavoro degli uomini, non la raffinatezza degli dei. A parte il fatto che lui è rimasto così, fiero di una normalità permanente, della sua cicca che mastica perennemente, del suo occhio che nel tempo - a forza di nobilitanti successi - potrebbe ospitare l’antica caramella, il monocolo che Philipp von Stosch portava con nonchalance fra piazza Navona e Testaccio. S’assocerebbe perfettamente al pugno sinistro che leva verso il suo popolo per invitarlo a festeggiare, a gridare. Come il suo conterraneo Zavattini da Luzzara, il cui urlo rivelatore rimbalza ancora fra le genti reggiane: “La veritàaaaaaa”.


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