Li ha riuniti in mezzo al campo, tutti in cerchio intorno a lui. Erano le 11 di ieri mattina, stadio Agia Sophia, zona nord di Atene. Vincenzo Italiano ha iniziato a parlare in maniera concitata. «Giochiamo questa partita come se fosse l’ultima della nostra vita». Agitava le braccia, accalorato. Un discorso piuttosto lungo, il richiamo finale, quasi un urlo, alla sua Fiorentina. Che stasera contro l’Olympiacos, diciamolo con onestà, non può fallire: terza finale in due anni, seconda consecutiva in Conference League, la degna conclusione di un ciclo iniziato tre anni fa e che ora ha bisogno di quella che il tecnico chiama fin dalla scorsa stagione la “ciliegina”. Restare a mani vuote un’altra volta, dopo due delusioni, significherebbe etichettare questo triennio con il marchio dell’incompiutezza. Destinato probabilmente all’oblio. La Fiorentina non vuole questo, e non lo merita neppure per quello che ha fatto dal 2021 a oggi ma soprattutto quest’anno, in mezzo a problemi, sfortuna e difetti, compresa la scelta di non dare sostanza al quarto posto raggiunto in pieno inverno con i rinforzi chiesti dal tecnico al mercato di gennaio.
Fiorentina per la storia
Brucia ancora, e molto, il ko con il West Ham di un anno fa a Praga. Quel gol di Bowen al 90' è un incubo ricorrente, da scacciare stasera, vincendo e alzando la coppa. Oggi, come avversario, c’è la sorpresa Olympiacos: i greci non sono forse rivali all’altezza degli inglesi, ma hanno eliminato Fenerbahce e Aston Villa. Sono guidati da José Luis Mendilibar, che un anno fa alla guida del Siviglia ha messo ko Mourinho e la sua Roma nella finale di Europa League. E da un attaccante, Ayoub El Kaabi, capocannoniere della Conference con dieci gol. Pochi scherzi. I viola giocano per se stessi, per la memoria di Joe Barone, per il presidente Commisso (volato ieri dagli Usa in Grecia), per Firenze, ma lo fanno anche per il nostro calcio: il successo spalancherebbe le porte della Conference alla nona in classifica in campionato, cioè il Torino. La Fiorentina dopo l’Atalanta, un doppio trionfo continentale per l’Italia: sarebbe un risultato importante alla vigilia dell’Europeo. Per i viola, peraltro, è la sesta finale della loro storia, ne ha vinta solo una, la Coppa delle Coppe 1960-1961. E l’ultimo trofeo in bacheca è la Coppa Italia 2000-2001, 23 anni fa, Roberto Mancini allenatore: è l’ora di interrompere questo lungo periodo senza gioie.
Via alla ricostruzione
Questa volta deve finire bene. Anche perché la Fiorentina è alle porte di una nuova era. Cambierà l’allenatore (a meno di sorprese), cambierà la struttura di una squadra che potrebbe perdere una decina di giocatori fra scadenze di contratto e fine prestiti. Forse di più se arrivassero belle offerte (vedi Nico Gonzalez e Martinez Quarta). La società, con la morte di Barone, si sta riorganizzando e il lavoro da fare è tanto, stabilendo prima di tutto qual è la dimensione che si vuole dare alla Fiorentina. Tornare a casa con la coppa darebbe un senso diverso a tutto ciò che attende i viola nei prossimi mesi, sicuramente offrirebbe più serenità e più vitalità. Del resto, c’era un patto nato a inizio stagione dopo le due finali perse: regalare finalmente un trofeo alla città. Un patto rinsaldato dopo la scomparsa del direttore generale e che oggi va sublimato in una prestazione vincente. Alle spalle, Firenze spinge forte: novemila tifosi ad Atene, quasi quarantamila disseminati fra i maxischermi piazzati a Firenze, dal Franchi al Viola Park e in altre zone della città. Quando c’è un vento così, bisogna spiegare le vele e solcare le onde.