Inno alla finale di Coppa Italia, scende in campo anche l’ANCRI

Non si spengono le polemiche per l'esecuzione del cantautore Sergio Sylvestre
Inno alla finale di Coppa Italia, scende in campo anche l’ANCRI© ANSA
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L’Associazione Insigniti dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (ANCRI), da anni impegnata a promuovere i Valori e i Simboli della Repubblica anche con la spiegazione del significato autentico del Canto degli italiani, nel corso di un dibattito tra gli associati, ha manifestato grande disappunto per come è stato eseguito l’Inno nazionale da Sylvester prima della finale di Coppa Italia di Coppa Italia, Napoli-Juventus”. Lo scrive il prefetto Francesco Tagliente sulla pagina FB.

Come era prevedibile – scrive Tagliente - essendo un semplice cantautore salito agli onori della cronaca 4 anni fa per aver vinto Amici di Maria De Filippi, non conosceva i testi del Canto degli italiani, tant’è che, oltre ad impappinarsi perdendo una battuta, ha concluso l’Inno col il pugno sinistro chiuso e alzato urlando: "No justice, no peace". Comprensibili quindi gli sberleffi e l’ironia sui social.

Sul punto abbiamo chiesto un parere a Michele D’Andrea, storico e studioso della musica del Risorgimento, socio onorario dell’ANCRI.

Cominciamo a togliere di mezzo i falsi problemi, a cominciare dalla nazionalità dell’artista. Non credo che gli americani avrebbero protestato se il loro inno fosse stato affidato alla voce di Luciano Pavarotti. Sylvester ha semplicemente interpretato in stile soul, anche stonando un pochino, un brano di cui ignora completamente la genesi e il contesto storico e che andrebbe cantato con un’espressione più vicina al registro musicale dell’800 italiano. Il fatto che si sia scordato le parole vuol dire che non si era preparato bene: grave mancanza per un professionista, ma ci può stare. D’altra parte, vuoti di memoria di attori celebri riempirebbero un libro grande come gli elenchi telefonici di una volta.

Ma allora si è discusso sul nulla…

No, c’è un elemento che nessuno ha colto, ma che a mio avviso è decisivo. Vede, da qualche anno abbiamo iniziato a scimmiottare l’uso americano di far eseguire l’inno da un solista a cappella. Errore da matita blu. L’inno degli Stati Uniti si presta a questo tipo d’interpretazione, perché racconta la visione di Fort McHenry, nel Maryland, dopo un devastante bombardamento inglese che lasciò in piedi solo la bandiera a stelle e strisce, «the star spangled banner». Il nostro inno, invece, ci mostra una scena completamente diversa: è l’annuncio di libertà dato a un popolo che lo accoglie e lo trasforma in un grido di guerra. In altre parole, il nostro è un possente canto corale, non la voce di un singolo. Come accade quando è eseguito da una banda al centro del campo e con i giocatori e l’intero stadio che l’accompagnano. Purtroppo, chi soffre di esterofilia non capisce che con una voce singola il Canto degli italiani non riesce ad accendere la miccia del cuore.

Sì, ma in tempo di coronavirus gli stadi sono vuoti.

Certo, e allora sarebbe stata più efficace una base con coro. I giocatori, invece di starsene zitti perché non si ritrovavano nel tempo e nel ritmo dell’esecuzione, avrebbero urlato anche loro il sì finale. Da finale, appunto.


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