Beppe Favalli, un amore lungo dodici anni

Alla Lazio dal 1992 al 2004 ha il record di presenze nella storia dei biancocelesti. A Roma ha vinto lo scudetto del 2000 e altri sette trofei
Beppe Favalli, un amore lungo dodici anni
9 min

È amara l’estate del 1992 in Italia. È un’estate di lutti, di stragi, e nemmeno il calcio riesce a portare sollievo o distrazione. Gli azzurri, infatti, guardano in tv gli Europei: il sogno della qualificazione si è chiuso sul palo di Rizzitelli a Mosca nell’ottobre 1991. Però è anche un’estate di cambiamenti. Un titolo europeo per gli azzurri arriva, quello Under 21. Tra i protagonisti ci sono tre giocatori della Cremonese: Mauro Bonomi, Giuseppe Favalli e Dario Marcolin. Cragnotti e Regalia li portano in blocco alla Lazio. A Favalli, cambia la carriera. Capitano dopo l’addio di Nesta, è oggi il giocatore con più presenze nella storia biancoceleste, 401 in dodici anni di grandi successi.

 

GLI INIZI. Bresciano di Orzinuovi, come l’attuale tecnico del Genoa Cesare Prandelli, inizia in maniera timida. Spinge a tratti, ma si vede che ha il piede preciso. Favalli si mette a disposizione della squadra, ma non sopporta le telecamere, le conferenze stampa. Non gli piace stare sotto i riflettori, ha le idee chiare su cosa vuole. Bonomi e Marcolin faticano a trovare un posto in squadra, il primo per qualche problema fisico di troppo, il secondo perché a centrocampo ci sono troppe stelle nella rosa. Favalli, invece, gioca da subito. Zoff gli affida la fascia sinistra, Favalli lo ripaga con la disciplina sicura di quei vent’anni che sembran già molti di più. Disputa 36 partite in quella prima stagione, segna anche il suo primo gol in Serie A, quello che apre il 2-1 su un modesto Pescara nel giorno del lancio della campagna abbonamenti per la stagione successiva. E La Lazio, dopo tre lustri, la vivrà anche in Europa.

ARRIVA ZEMAN. Favalli, terzino tutto corsa e resistenza, ottiene la stima di Zoff e dei compagni che lo soprannominano “Swarovski”. Bello e fragile, nel secondo campionato alla Lazio si regala una rete preziosa nel giorno dell’esordio di Alen Boksic contro il Napoli e incassa anche la prima espulsione contro il Foggia. Gioca solo 25 partite in tutto l’anno, il suo record negativo in biancoceleste: ne disputerà così poche solo nell’anno dello scudetto, per effetto del turnover esasperato di Eriksson. L’arrivo di Zeman segna una svolta importante. Il boemo, che più volte l’ha indicato nella squadra ideale dei migliori giocatori allenati in carriera, lo rende un terzino più offensivo. Nella prima stagione zemaniana interpreta un ruolo delicato, come Negro sulla fascia destra, in un 4-3-3 che chiede tanto agli esterni e li espone anche a conseguenze e rischi. Favalli, espulso all’esordio a Bari, segna anche in Europa, per la prima volta contro la Dinamo Minsk. La Lazio chiude al secondo posto in classifica e sfiora la semifinale di Coppa Uefa, persa in una serata storta e surreale di Dortmund.

I MIGLIORI ANNI. L’esonero di Zeman e il ritorno di Zoff non alterano le gerarchie in squadra. Determinante, però, nel 1998 l’arrivo di Eriksson. È una stagione da record, e a lanciarla c’è la sua espulsione dopo 7’ nel derby contro la Roma dove è appena arrivato Zeman. Il rosso per il fallo all’apparenza innocuo su Tommasi è l’inizio di una prestazione capolavoro della Lazio che vincerà tutti i quattro derby in stagione tra campionato e Coppa Italia. Inizia un ciclo perfetto, irripetibile. In 28 mesi, Favalli e la Lazio vincono lo scudetto, due Coppe Italia, due Supercoppe italiane, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa UEFA. Turnover o no, rimane uno dei grandi protagonisti dell’annata dello scudetto. Nella finale di Coppa Italia contro l’Inter partecipa alla festa con un look per lui decisamente inusuale, con i capelli biondo platino. Passano 116 giorni dalla conquista dello scudetto e la Lazio si riprende l’abbraccio dell’Olimpico. Arrivano in 70 mila, per un incasso di due miliardi e mezzo, per la Supercoppa Italiana contro l’Inter di Marcello Lippi. La Lazio regala ai tifosi novanta minuti di splendida illusione. Si conclude un percorso che ha soddisfatto un desiderio di grandezza cullato e nascosto in fondo al cuore. Quella maglia piena di coccarde tricolori racconta di una squadra che è riuscita a vincere scudetto e Coppa Italia lo stesso anno come prima avevano fatto Juventus e Napoli. È la maglia che celebra un doppio trionfo, che certifica uno status rinnovato per la Lazio a cavallo fra gli anni Novanta e l’inizio dei Duemila. Al triplice fischio finale, dopo un 4-3 più netto di quanto il divario nel punteggio farebbe ipotizzare, Alessandro Nesta alza il settimo trofeo in poco più di due anni. Per Sir Alex Ferguson, l’allenatore del Manchester United, quella Lazio è la squadra più forte d’Europa. Le prime uscite sembrano accreditare il giudizio, sei gol alla Sampdoria in Coppa Italia in due gare, altrettante a Shakhtar Donetsk e Sparta Praga in Champions League. 

L’ADDIO. Ma qualcosa nello spogliatoio si è rotto, e quella Supercoppa resterà l’ultimo trionfo dell’era Cragnotti. Finisce un’epoca. Nel 2002 se ne va anche Nesta. Roberto Mancini, passato dal campo alla panchina nel ruolo di allenatore, elegge Favalli nuovo leader e capitano della squadra. È suo il gol che il 10 maggio 2003 permette alla Lazio di battere il Bologna e centrare il quarto posto che significa qualificazione alla Champions League. Ma una storia di successo e di emozione come questa non può finire qui. Manca ancora qualcosa, un ultimo giro di giostra che ne riassuma il senso e la proietti nella leggenda. L’anno dopo gioca 43 partite, diventa il primo a superare le 400 presenze con la Lazio e si prende anche la gioia di alzare la Coppa Italia a Torino. È il suo ultimo successo in biancoceleste. Svincolato, passerà all’Inter e poi al Milan, di nuovo insieme a Nesta. Per chiudere una grande storia.


© RIPRODUZIONE RISERVATA