Matias Almeyda, l’essenza della “garra”

Il centrocampista argentino arrivò alla Lazio nel 1997. Fondamentale nello scacchiere di Eriksson, fu il polmone del secondo scudetto biancoceleste
Matias Almeyda, l’essenza della “garra”
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Capelli al vento, corsa continua e tanta, tantissima grinta: è forse stato l’esempio lampante dell’applicazione della “garra” sudamericana su un rettangolo verde. Matias Jesús Almeyda nasce ad Azul, una piccola cittadina nella provincia di Buenos Aires, il 21 dicembre 1973. Oggi il suo aspetto è molto simile ai tempi in cui giocava, porta ancora la lunga chioma che lo ha sempre contraddistinto mentre prova a trasmettere quella grinta che applicava in campo alla prima squadra del San Jose Earthquakes dove allena dal 2018.

Gli inizi

Matias si affaccia nel grande calcio a inizio anni ’90. A dargli l’opportunità è “El mas grande de Argentina” (“Il più grande d’Argentina”), il club che trasuda orgoglio e storia: il River Plate. Cinque stagioni in cui vince tre Campionati Apertura, ma soprattutto culmina il quinquennio con la conquista della coppa più importante: la Libertadores 1996. A 23 anni, dopo aver accumulato esperienza ed essere cresciuto come uomo e come calciatore, arriva il momento del grande salto: dal Sudamerica fino al Vecchio Continente. I colori del Siviglia sono gli stessi del River, ma la sua unica annata in Liga termina con una tragica retrocessione. “El Pelado” non può restare, ad accorgersi di lui è un presidente ambizioso che da lì a poco riuscirà ad allestire la mediana più forte del mondo: Sergio Cragnotti.

La svolta

Nonostante un 1997-98 caratterizzato da alti e bassi, il centrocampista argentino vince il suo primo trofeo italiano, una Coppa Italia che alla Lazio mancava da ben 40 anni. I biancocelesti arrivano in fondo anche in Coppa Uefa, Almeyda gioca titolare nella finale di Parigi, ma in quella notte la squadra di Eriksson deve fare i conti con il calciatore più forte del pianeta: i sogni di gloria vengono mandati in fumo dall’Inter di Ronaldo. Nell’estate ‘98 il patron laziale aggiunge a una squadra già fortissima alcuni tasselli fondamentali come Salas, Mihajlovic, Conçeiçao, Couto, Stankovic e Vieri. L’altra “pescata” dalla Liga non avrà gli stessi effetti dell’esplosivo Almeyda: Ivan de la Peña si rivelerà un incredibile flop. La Lazio è fortissima, e con un gladiatore come Matias che lotta e sradica palloni a centrocampo lasciando agli avversari solo le briciole, avanza su tutti i fronti. La stagione si apre con la vittoria in Supercoppa contro i campioni d’Italia della Juve e prosegue con un cammino trionfale nell’ultima edizione della Coppa delle Coppe. Almeyda è titolare al Villa Park di Birmingham e vince la sua prima coppa europea, regalando questa emozione anche alla Lazio. Lo scudetto sfuma solo sul finale, e prende la via della Milano rossonera. Poco importa, perché per scrivere la pagina più importante della storia biancoceleste - insieme all’indelebile scudetto 1974 - manca pochissimo. Cragnotti si scatena in estate e completa quel centrocampo stellare con gli innesti di tre suoi connazionali: Veron, Simeone e Sensini.

Vola Lazio vola

La stagione inizia il 27 agosto a Montecarlo, dove si disputa la Supercoppa Europea. L’avversario dei biancocelesti è lo United del “Treble”. La mediana di Sir Alex Ferguson è composta da Roy Keane, Scholes e Beckham, dall’altra parte però c’è una Lazio in grado di schierare tre giocatori dai piedi fatati come Veron, Nedved e Stankovic, in mezzo ai quali c’è bisogno dei dieci polmoni del “Pelado”. Il gol di Salas decide la gara e la Lazio riparte con un’altra coppa in bacheca. In mezzo alla qualità e all’abbondanza di Eriksson, c’è un posto fisso per i tackle e le scivolate di Almeyda. I tifosi lo amano e lui è il profilo ideale da schierare in un reparto che basa sulla classe e i piedi buoni le sue fondamenta. Quello che succede alla quarta giornata di campionato, quando la Lazio espugna il Tardini di Parma 2-1, si può riassumere nella reazione del trafitto Gigi Buffon, incredulo nel vedere il pallone in fondo al sacco. La gara è decisa da uno dei pochissimi gol in carriera dell’argentino: in quella sensazionale rete c’è incoscienza e istinto puro. Dopo la respinta di Lassissi, la sfera sta per cadere sui 30 metri, Almeyda non ci pensa due volte e lascia partire un bolide volante di mezzo esterno che si va a infilare sotto l’incrocio dei pali. È uno dei gol più belli e iconici della storia biancoceleste. Quell’annata però rischia di diventare una grande beffa: la Lazio, prima per quasi tutto il campionato, subisce il sorpasso della Juve, ma la magia del calcio regala ai capitolini un finale thrilling che culmina nella conquista di uno scudetto “pazzo”, sotto la pioggia di Perugia. Insieme alla vittoria della Coppa Italia, è il modo più incredibile per festeggiare l’anno del centenario. Almeyda non poteva fare di più per la causa e non poteva aspettarsi più amore dal popolo laziale, che ogni domenica lo accompagnava in Curva Nord con lo stendardo “Undici Almeyda”, a dimostrazione dell’imprescindibilità di un lottatore argentino per il cammino vincente di quella Lazio. Un calciatore onnipresente a centrocampo, che sembrava sdoppiarsi per andare a riconquistare il pallone e far ripartire la manovra. La storia d’amore finisce in estate, con il mediano dai lunghi capelli che saluta Roma per approdare a Parma nell’operazione che porta Crespo alla Lazio. La sua esperienza italiana dura fino al 2004, divisa tra i gialloblù, l’Inter - dove matura l’amicizia con il grande tifoso del River Lele Adani - e una brevissima esperienza a Brescia. Con il Parma vince anche la Coppa Italia 2002, ma i migliori ricordi nel nostro campionato li ha lasciati senza dubbio a Roma, dove rimarrà per sempre idolo del popolo biancoceleste.


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