Italia, il fantasma della Serie B

Italia, il fantasma della Serie B© Getty Images
Alessandro Barbano
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Mancini avrebbe potuto fare altrimenti? Se anziché confermare quel che resta dell’Italia dell’Europeo avesse schierato da subito tutti i candidati del nuovo ciclo, quelli che giocheranno nelle prossime gare di Nations League, avrebbe evitato questa miserrima figura? E se addirittura avesse scelto azzurri diversi, non quelli convocati per questa insolita tournée, ma altri da pescare tra i settanta-ottanta che ancora hanno una maglia in una serie A multietnica e denazionalizzata, avrebbe avuto qualche chance? Non di vincere contro questa Argentina, ma almeno di giocarsela, di uscire con onore, di evitare l’umiliazione dei tunnel, del torello sudamericano in mezzo a manichini immobili, dell’ola impietoso dagli spalti? Se, se, se… ci fosse un’altra domanda, potremmo prendercela almeno con le scelte del ct, o con la condizione atletica già balneare degli azzurri, o con gli infortuni di Insigne, Immobile, Verratti e Chiesa. 

Ma sappiamo che non è così. Il ritorno a Wembley è l’ultimo strappo al velo di Maya con cui il calcio italiano dissimula a se stesso la cruda realtà: la distanza tra noi e le grandi è incommensurabile. Tanto da impedirci perfino la consolazione di una sconfitta dignitosa. I migliori estraibili da quella stretta pattuglia di italiani risparmiati dai vantaggi fiscali del decreto crescita, dalla morte dei vivai, dall’azzardo finanziario di presidenti scommettitori, sono comunque peggiori di tutti gli avversari che affrontiamo, che siano la Macedonia o l’Argentina.  

Senza una rifondazione del sistema industriale non c’è ct che possa salvarci. Ci vuole, se mai, il genio della lampada di Aladino. Il quale dal lume stretto della sua magica dimora tirerebbe fuori, se non proprio Messi, certamente Dybala, Lautaro e Di Maria, i primi due protagonisti del campionato italiano, il terzo in arrivo, e darebbe loro una maglia azzurra. Questo per dire che non ha senso riempire gli spogliatoi della primavera di stranieri e negare ai nuovi giunti la cittadinanza. Con l’effetto di essere ormai un mercato di speculazione e di scambio a vantaggio dei concorrenti. 

La notte di Londra chiama tutta la classe dirigente del calcio a un bagno di verità: la Nazionale presa a schiaffi è l’altra faccia dei club che fuori dai confini hanno vinto in dodici anni solo una Conference cup, grazie a un altro genio della lampada. Possiamo continuare a raccontarci bugie. E pensare che ieri sera ce la siamo giocata per venti minuti. Che sul primo gol Di Lorenzo ha peccato di presunzione nel tentare di togliere la palla a Messi, quando l’argentino gli era di spalle. Che Chiellini forse avrebbe dovuto anticipare il ritiro (ma chi c’è dietro di lui?). Che la scelta di Belotti è stata un’azione suicidaria. O piuttosto che l’Argentina è una sublime comunità di fenomeni. Il che è vero, per l’inedita concrezione di classe, di esperienza, di intesa, di ritmo che c’è nei dieci-dodici piedi tra De Paul e Lautaro, passando per Lo Celso, Di Maria, Messi e, naturalmente, Paulo il senza casa, a cui basta un minuto per ricordare al mondo che vuol dire avere il mirino nel sinistro. 

Contro questi campioni è naturale perdere la partita. Non è naturale perdere la faccia, nella giornata dell’atteso riscatto. Non è naturale presentarsi come gli sparring partners dell’unica nazionale in campo. Un ciclo è finito. Ma non è detto che un nuovo possa iniziare, semplicemente dando la maglia da titolare a quelli che stanno fuori. La serie A oggi è, fuori dai confini nazionali, una serie B. Capace di attirare al più gli appetiti di attempati fuoriclasse in disarmo e senza contratto, non di trattenere i talenti migliori. Chiediamoci che cosa farebbe Leão, se domani uno dei grandi club inglesi gli facesse una telefonata.


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