Profondità, sentimenti, anima, impegno, felicità e tristezza sono le parole che ricorrono spesso in questa chiacchierata con Luciano Spalletti, un botta e rispostona decisamente impegnativo. Dice il saggio (cinese) “l’uomo che non conosce la tristezza non ha mai pensieri profondi”. «E io la tristezza l’ho scelta e abbracciata lasciando Napoli dopo quella cosa là», confessa. Quella cosa là è lo scudetto - anche, se non soprattutto - della bellezza, Luciano lo ricorda così, quasi con pudore. «Sarebbe stato più facile e naturale andare avanti, lavorare con un gruppo che avevamo portato al top, godersi la felicità del momento, quella fatta provare alla gente di Napoli. Ho scelto la tristezza. Vedi…».
Vedo.
«In fondo a me è riuscito spesso di centrare l’obiettivo e quando lo centro vorrei tanto dare le spalle al mio divano, lasciarmi cadere all’indietro e fermarmi a guardare l’infinito, assaporando la felicità di chi ho reso felice».
Luciano, un giorno De Rossi disse che sei l’allenatore che l’ha segnato di più e il migliore. Aggiunse che per motivi diversi anche Luis Enrique e Conte l’hanno segnato. Cosa significa quel «mi ha segnato»?
«Tu non lo puoi capire».
Beh, ti ringrazio sentitamente.
«Perché è uno stile, un modo di parlare e ragionare. Per come ti sento e sento altri, penso non ti sia facile capire».
Stai andando malissimo.
«L’altro giorno mi hai detto che ti piacciono quelli che vincono. Ma così si perde l’essenza, sia la vittoria che la sconfitta sono lo stesso impostore. Perdere induce a riflettere, a ragionare sugli errori commessi per tentare di non ripeterli più. Vincere può distrarti dall’obiettivo, dalle cose che succedono durante il percorso. Le cose dell’anima, i sentimenti... Se il giorno dopo ti fermi alla vittoria non migliori, non cresci. Non è detto, poi, che, facendo le stesse cose, si possano ottenere identici risultati. Decisivo è il modo in cui riesci a relazionarti con i giocatori e i collaboratori, quanto sei in grado di renderli doppiamente forti e parte della stessa storia: uno più uno più uno al cubo insomma. Abbracci, sentimenti, solidarietà, capacità di coinvolgimento, tanto dipende da come si vivono i differenti momenti. Il calcio è semplice, ma non è semplice».
Il teorico del calcio semplice è Massimiliano Allegri, ci ha titolato la biografia.
«A volte il calcio assume i connotati di chi lo complica. Anche voi giornalisti avete delle responsabilità, talvolta per sufficienza. Mettiamo la costruzione…».
…la maledetta benedetta costruzione dal basso.
«Rende bene se rapportata con lo spogliatoio e con le caratteristiche dell’avversario».
Ma comporta più rischi che vantaggi.
«È che adesso faccio questo e non mi è consentito dal ruolo: ma ammetto di aver pensato di venire un paio di volte in tv a parlare di calcio».
La costruzione dal basso non può, né deve, essere un dogma.
«Io non ho dogmi di niente. Voglio essere pratico nella profondità: non conosco un solo modo di vivere, sono per le aperture e la conoscenza di più realtà e modi di pensare e fare. Da sempre considero Marcello Lippi una fonte di ispirazione: lo seguivo con attenzione, guardavo come si comportava, l’ho voluto incontrare per farmi spiegare il mondo azzurro nel profondo. Ma allo stesso tempo guardo a Sacchi come a un modello».
Cosa o chi temi?