Maradona era un calciatore

Maradona era un calciatore
Ivan Zazzaroni
6 min

Il Maradona eroe dei due mondi (Argentina e Napoli), il Maradona icona, il Maradona tradito dalla Fifa, il Maradona del riscatto sociale, il Maradona volto del progressismo latinoamericano, il Maradona di Fidel, Chavez e Maduro, il Maradona anti-Bush e anti-Thatcher, il Maradona in rapporti con il clan Giuliano, il Maradona troppo generoso, il Maradona in bianco e nero, il Maradona di Acerra, il Maradona evasore, il Maradona fuori controllo, il Maradona nemico di se stesso, il Maradona criminalizzato, il Maradona di Kusturica, il Maradona di Carlos Bilardo che non deve sapere della morte di «Diego, mio figlio», il Maradona dei due Gianni, Mura e Minà, il Maradona empatico, il Maradona del gol di mano e quello del gol più gol di sempre, il Maradona delle diecimila donne. Il Maradona dei conflitti familiari. La droga, l’alcol, la musica: il Maradona rockstar. Il Maradona di Lapo, le sue lacrime in tv quando si lascia sopraffare dal ricordo e con dispiacere confessa che «era un mio fratello maggiore, anche se non mi chiamo Maradona». Ma Elkann.

Ieri abbiamo letto e sentito di tutto, ci sono stati mostrate troppe versioni di Diego, fino a disperdere un capitale di emozioni e suggestioni che meritavano forme narrative più accorte, mentre a Buenos Aires sfilavano centinaia di migliaia di argentini, molti dei quali sotto i quarant’anni, gente che non l’aveva mai visto giocare dal vivo ma che l’aveva ugualmente eletto a simbolo della protesta sociale.

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Un solo Maradona è stato trascurato: il più autentico, il calciatore, il fuoriclasse padrone del campo e del gioco. Hanno provato a ricordarlo alcuni ex compagni di squadra e avversari, ma i loro tentativi sono stati sovrastati dalle versioni più estreme e pop del Pibe. Che aveva avuto due doni straordinari dalla vita: nascere futbolista, come se la palla l’avesse inventata lui (l’ha poi citata nel testamento spirituale, la Pelota) e incontrare la fantasia di un ingegnere napoletano, Corrado Ferlaino, che gli offrí il Regno di Napoli. E quando la sfiga si fa fortuna, fatale anche l’incontro - pardòn, lo scontro - con Andoni Goikoetxea, il killer dell’Athletic Bilbao.

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Chi non ha avuto il privilegio di assistere a una o più esibizioni live di Maradona deve provare a immaginare Messi - la cosa calcistica più simile a lui - ma con più esplosività, presenza scenica, personalità: Diego, a differenza di Leo, era leader tanto di soluzioni quanto di carattere. La descrizione più centrata l’ha fornita Ottavio Bianchi: «Con i piedi faceva quello che io con difficoltà facevo con le mani. Bastava dargli un pallone e riemergeva il bambino. Si divertiva. Diventava gioioso. Il calcio era una parte del suo corpo, era la sua vita. Aveva una fluidità e una flessibilità articolare che solo Nureyev. E chi diceva che non si allenava, raccontava frottole: il genio per essere tale investe nell’esercitazione. Il grande pianista e il grande attore lavorano con ostinazione per migliorare il gesto».

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Ma adesso, vi prego, non mostratemi altre immagini di Diego con le canzoni di Pino Daniele in sottofondo, evitatemi lo strazio del ricordo del calcio e della vita che fu. La morte di Maradona in un periodo tragico come questo riporta ai colori, agli umori, ai pieni, agli abbracci, alle emozioni della normalità perduta. E poi Maradona non è morto, è solo andato a giocare in trasferta (cit. Paolo Sorrentino).


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