Quei ct superati dalla storia

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Quei ct superati dalla storia
Marco Evangelisti
4 min

Sembra che il Mondiale porti via ogni festa. Finisce e si fatica a tornare alla normalità, come quando tenti di riaccendere la macchina lasciata troppo in garage. Non è poi vero, in realtà. Il calcio è come Wolverine, si rigenera continuamente. E porta dentro di sé cose che appaiono inesauribili. Sia detto senz’ombra di sarcasmo, l’esempio ambulante è Cristiano Ronaldo: cinque edizioni senza mai perdersi l’appuntamento con il gol, quasi trentotto anni e da quanto si capisce è pronto a ricominciare.

Ma questa è un’edizione particolare, non solo per come l’hanno piantata a forza nel cuore della stagione e ai confini del Natale. Con tutta l’ammirazione per l’energia interiore di Ronaldo, che i prossimi quattro anni lo portino a disputare un sesto campionato è fuori discussione e lui stesso lo riconosce. Considerazioni analoghe valgono per Leo Messi e Luka Modric. Se li trovassimo ancora in lista per il Mondiale nordamericano, saremmo costretti a tirare tristi conclusioni sullo stato sportivo di Paesi abituati a sfornare palate di talenti.

Perderemo punti di riferimento che ci hanno guidati per buone quindici stagioni: i tre di cui sopra, altri eccellenti giocatori ormai incalzati dalle nuove sicurezze, cioè da ragazzi che vanno da Mbappé in poi. Lo sapevamo prima di cominciare. Meno ovvio, forse, era il modo in cui in Qatar si sarebbe consumata una generazione di tecnici carismatici, innovatori invecchiati, ct incalliti giunti alla resa dei conti con la storia. La serie di risultati a sorpresa e fragorose precipitazioni degli ultimi giorni sta spazzando via un’intera civiltà calcistica.

Nessuno si perdona, nessuno è stato perdonato. Louis Van Gaal, settantuno anni e in totale sette stagioni alla guida dell’Olanda in tre diverse fasi, ha chiuso dopo la sconfitta con l’Argentina, proprio quando si era rassegnato a trattare da adulti i giocatori e a destrutturare le sue in precedenza granitiche convinzioni tattiche. Subito prima era stata la Croazia a porre fine ai sei anni e mezzo di Adenor Leonardo Bacchi detto Tite sulla panchina del Brasile. Tite di anni ne ha sessantuno, comunque si considerava a fine percorso in Nazionale e ha voglia di continuare a fare scuola in Europa. Di sicuro ci riuscirà, ma come tutti sanno essere allenatore di club è un mestiere diverso. Di Fernando Santos non si hanno notizie sicure, non ancora. Però qualsiasi voce di popolo lo dà in uscita in seguito alla catastrofe del quarto di finale con il Marocco. Dei suoi sessantotto anni ne ha trascorsi quattro con la Grecia e gli ultimi otto con il Portogallo. Nonostante abbia ottenuto gli unici due titoli nella storia della Nazionale rossoverde, l’Europeo 2016 e la Nations League 2019, lo accusavano da parecchio di limitarsi a gestire senza offrire soluzioni personali. Adesso che ha preso decisioni rigide su Ronaldo, Cancelo, Rui Patricio possono rimproverargli il contrario.

Il primo a saltare non è stato un anziano santone. È stato Luis Enrique, cinquantaduenne apostolo di Pep Guardiola - che peraltro ha una primavera di meno -, innovatore convinto, salutare maestro di umiltà per Messi quando l’argentino al Barcellona stava per varcare il confine tra consapevolezza e presunzione. Si è infranto anche lui contro il muro del Marocco e la sua resa è la più emblematica di tutte. La sintesi di un Mondiale che sta sostituendo l’illusione del gioco ideologico con un verticale ritorno alla semplicità.


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