Perché Lukaku ha ragione

Perché Lukaku ha ragione© Inter via Getty Images 
Alessandro Barbano
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Attenti, dice Lukaku, stiamo tornando indietro. Il suo allarme antirazzismo richiama alla memoria di chi scrive il faccione ingenuo di Luca, diciotto anni, facchino in nero senza orari e senza festivi per una ditta di trasloco della Capitale. «Domani», dice sabato il ragazzo al principale, «non vengo al lavoro, c’è il derby». «Ma che vai a perdere tempo con la Roma», gli fa quello, «non vedi che dice Totti di Pallotta?» «Io non sto né con la Roma né con Totti», ribatte Luca. «Ah, no? E con chi stai tu?» «Con la curva. Con la curva Sud».

In curva Sud domenica Luca ha trovato uno striscione con su scritto: «Vola alto, ciao Diablo». Era un omaggio romanista all’ex capo degli irriducibili della Lazio, ucciso il 7 agosto scorso in un agguato mafioso al parco degli Acquedotti. Sulla curva opposta campeggiava un apologo dell’ultrà assassinato: «È uno che, se muore, non ci credere, perché è capace pure di rinascere» (le virgole sono una nostra aggiunta). C’è da stupirsi se nell’immaginazione di quel ragazzo, che ha lasciato la scuola a quattordici anni, Diabolik e Gesù possono sovrapporsi fino a confondersi? Che il morto meriti tutto il rispetto e il timore possibili lo dice un altro indizio: ai calciatori biancocelesti, che hanno omesso di rendergli omaggio, è fatto divieto di festeggiare sotto la curva Nord. Cosicché Luis Alberto e compagni, dopo il pareggio, non ci provano neanche ad avvicinarsi. Attenti, dice Lukaku, stiamo tornando indietro. Forse Lukaku ha ragione.

Giriamo queste riflessioni a chi dice che non si può fermare una gara o punire una società per dieci deficienti. Che poi non sono dieci. O a chi diffida della retorica antirazzista in nome di un malinteso senso della libertà, invocando il diritto a una giungla delle emozioni che avrebbe nello stadio la sua naturale agorà. Le curve continuano a essere la sentina dei pregiudizi e dell’odio. E questa sentina nutre ancora migliaia di giovani senza famiglia e senza scuola. Per i quali il sortilegio iniziatico di un gruppo ultrà surclassa l’autorità di un presidente e il prestigio di un campione. Né con la Roma, né con Totti, appunto. Ma con la curva.

Stiamo tornando indietro perché il fascino di questa segreta violenza non cessa. Come un rigurgito arcaico risale la corrente del progresso in senso contrario, sfidando tutte le nostre crescenti aspettative di benessere, di civiltà e di emancipazione. In un tempo orfano di verità, offre l’illusione di una verità primitiva, tanto più autentica quanto più ostile alle convenzioni. È questa la ragione del successo «politico» del tifo organizzato, e della sua capacità di raccogliere adesioni.

Stiamo tornando indietro perché le società sono in un guado paradossale: a causa degli ultrà hanno perduto in parte il pubblico dei tifosi, e adesso temono che, perdendo anche gli ultrà, non gli restino che gli stadi vuoti. Oscillano ancora tra paura, convenienza e connivenza. A parole prendono le distanze dalla violenza, ma nella sostanza continuano a lasciare franchigia al comando di questi capi bastone senza tempo. Stiamo tornando indietro perché tutti, dalle istituzioni sportive ai pubblici poteri e alla politica, continuano a esibire sanzioni spuntate e retoriche divergenti. Nessuno ha ancora una strategia per chiudere o riconvertire queste madrasse della violenza occidentale. Dove ragazzi come Luca imparano un mondo capovolto. Perciò Lukaku ha ragione. E va preso sul serio. 


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