Noi che vogliamo un altro calcio

Noi che vogliamo un altro calcio© LAPRESSE
Alessandro Barbano
3 min

Più che l’orrore dello striscione contro Zaniolo e Rocca, affisso nottetempo con un’azione eversiva a Trigoria, più che l’orrore dell’augurio alla frattura del perone, fatta ad Immobile dai microfoni di una radio romanista, potè il silenzio. La vigilia del derby è una nube tossica, che porta un carico di violenza tra le piazze reali e virtuali della Capitale. E che le società ignorano. Nessuna condanna, nessuna presa di distanza. Fino al punto che, in conferenza stampa, osservanti cortigiani intimano ai giornalisti, con un costume primitivo ma consueto per il calcio, di non rivolgere ad Inzaghi domande su quanto è accaduto. Con una motivazione che non convincerebbe neanche un bambino: non dare ai violenti la ribalta mediatica. Come se gli ultrà che, impuniti, spadroneggiano dentro e fuori dall’Olimpico, ne avessero bisogno. Sono gli stessi che hanno intimato ai calciatori laziali di non festeggiare sotto la curva perché non avevano omaggiato il loro capo assassinato. Con un blitz hanno raggiunto l’obiettivo: imporre a una partita un oscuro copione. Convincerci che la rivalità è guerra, e che sugli spalti comandano loro.

Questa surreale vicenda dimostra quanto lontana sia una bonifica del calcio. E quanto degli ultrà le società hanno ancora paura e bisogno. Perché non sono gruppuscoli isolati, ma minoranze organizzate in grado di contendere il governo dello spettacolo, di condizionare, di ricattare e di distruggere. Purtroppo la strategia di far finta di non vedere per non intervenire – quel dannato riflesso condizionato che ha indotto l’ad della Lega Luigi De Siervo a ordinare ai video-reporter di non riprendere i cori razzisti – diventa l’incubatore di questa violenza.

Stavolta tace perfino un presidente coraggioso come Claudio Lotito, che pure i teppisti ha saputo sfidarli. E che solo qualche giorno fa ha chiesto i danni e interdetto l’ingresso per tre gare a sedici imbecilli, autori di un saluto romano costato al club la chiusura della curva per un turno. Se però quei sedici diventano milleseicento, non c’è nessun presidente in Italia che possa alzare la voce. E allora ci sia risparmiato almeno il marketing buonista della Lega calcio e le censure ai titoli dei giornali, con cui qualche società pensa di rifarsi un’improbabile verginità.

La vigilia del derby è stata segnata da un crescendo di insulti e maledizioni. Orrendo il messaggio che augurava un grave infortunio al nostro Immobile: nostro perché capocannoniere e colonna della Nazionale in cui ogni italiano si riconosce. Terribile la risposta dello striscione contro l’indimenticabile Rocca e il nostro Zaniolo: nostro perché simbolo del talento italiano. Qualunque sportivo vero dovrebbe augurargli una rapida guarigione. Perciò ci saremmo aspettati che ieri Zaniolo, Rocca e Lotito, Immobile e quel che resta della dirigenza giallorossa si stringessero la mano, dimostrando, allora sì, che la ribalta della violenza si può coprire con la ribalta della passione.

Noi, che “semplicemente passione” rappresentiamo da un secolo, diciamo senza timori e reticenze che il nostro derby è tutta un’altra cosa, in nome di quei sessantamila che, non solo per il fatto di essere una maggioranza silenziosa, ma per il fatto di amare il calcio come il calcio va amato, meriterebbero dal calcio un altro spettacolo.


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