Dissociazione Sportiva Roma

Dissociazione Sportiva Roma© LAPRESSE
Ivan Zazzaroni
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La Roma di Fonseca ha due punti in meno rispetto a quella dell’ultimo Di Francesco, che tre settimane dopo sarebbe stato cacciato, e si trova a sei punti dalla Champions (sei più uno: l’Atalanta ha vinto entrambi gli scontri diretti). Da tre mesi vive sospesa tra il presente-passato e il futuro e se non avesse sprecato anche l’occasione fornitale dal mercato di gennaio potremmo concederle qualche attenuante. Purtroppo ha aggiunto errori a errori e, considerati i risultati ottenuti dalla ripresa del campionato a oggi (cinque sconfitte nelle ultime sette) è inevitabile e doveroso parlare di crisi profonda. A Bergamo aveva la possibilità di recuperare ritardi e un po’ di entusiasmo ma il confronto con l’Atalanta è stato a tratti impietoso sul piano tecnico, tattico e atletico.

Dopo averne presi sette in due partite (Sassuolo e Bologna) e aver conosciuto le prime critiche, Fonseca ha provato a inseguire copertura e solidità, trascurando la costruzione, e si è inventato la Roma-mela. E la Roma-mela ha funzionato per un tempo: divisa in due metà, cinque difensori (Fazio reintegrato, Mancini prima protezione) e cinque offensivi (“emozionante” la coppia di mezzo, Pellegrini-Mkhitaryan), ha resistito agli assalti dell’Atalanta e al primo errore ha colpito con Dzeko. Nella ripresa sono però bastati pochi minuti a Gasperini per rimarcare le distanze.

Aspettando il signing e poi il closing di Friedkin e curioso di sapere chi sottoscriverà l’aumento di capitale, al gol di Pasalic, appena entrato, mi sono ritrovato a riflettere su un passato abbastanza recente. Non pensavo che un giorno avrei potuto scrivere ciò che sto per scrivere. Ma la vita è strana e il calcio lo è di più. In effetti oggi mi riesce naturale rivalutare la Roma, peraltro criticatissima, di Franco Baldini e Walter Sabatini (quest’ultimo portò Alisson, Benatia, El Shaarawy, Lamela, Nainggolan, Perotti, Pjanic, Salah, Strootman, otto su nove rivenduti per 300 milioni complessivi). La rivaluto perché i due sanno di calcio (sono contemporanei), il calcio è da sempre la loro lingua, il loro terreno naturale. I manager esperti di numeri e dinamiche relazionali sono una gran bella cosa ma solo se non operano nel calcio: si rivelano una iattura non appena si convincono di poter avere lo stesso impatto e lo stesso successo in un mondo irregolare, antipatico, talvolta sconveniente quale è quello del pallone; un non-sistema che pretende conoscenza/competenza di settore.

La Roma attuale non vale il nome che si porta addosso: in tanti anni ho visto anche piccole squadre in grandi società, ma mai grandi squadre in piccole società. Questa caccia De Rossi e in conferenza stampa l’ad dice di aver provato a trattenerlo. Petrachi attacca la stampa e la società si dissocia dalle parole del ds pur rispettandone il sentimento. A questo punto chiamiamola Dissociazione Sportiva Roma.

Guardiola non scappa

Le punizioni dell’Uefa (due anni fuori dalla Champions, Tas permettendo) avranno un effetto significativo sul futuro di Guardiola: se per caso Pep avesse soltanto ipotizzato di lasciare il City a fine stagione, ora che il club sta per andare incontro a pesanti sanzioni, ogni suo progetto di fuga rientra e il rapporto prosegue con un coinvolgimento emotivo addirittura superiore. Guardiola è fatto così: i suoi principi, il suo profondo senso di responsabilità, gli vietano di abbandonare chi è (o ha messo) in difficoltà, soprattutto poi se si tratta di persone amiche con le quali ha condiviso programmi, sforzi, obiettivi, successi e sconfitte.

Da anni il Manchester City è “més que un club” anglo-arabo: ha acquisito un dna catalano. Il catalano è infatti la lingua parlata dal suo management: Txiki Begiristain e Ferran Soriano compongono con Pep e Pere Guardiola, il fratello-agente, un gruppo di lavoro estremamente solido, unito e battagliero. Nel calcio tutto può succedere, ma se Guardiola abbandonasse il City dopo ciò che è accaduto, la più sorpresa sarebbe certamente la sua coscienza.


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