Il calcio ha il ministro che si merita, il Paese no

Il calcio ha il ministro che si merita, il Paese no© ANSA
Alessandro Barbano
4 min

Il calcio ha il ministro che si merita. Il Paese no. Il Paese ha un rappresentante che smentisce il suo governo e non è adeguato all’istituzione che rappresenta, né all’emergenza. Perciò sarebbe il caso che Vincenzo Spadafora si dimettesse, o piuttosto che il premier lo inducesse a farsi da parte. Non può accadere che Giuseppe Conte alle due di notte confermi con il suo decreto che il campionato continua a porte chiuse, censurando contestualmente come inaccettabili le fughe di notizie che creano confusione e allarme tra i cittadini, e il mattino seguente, a pochi minuti dall’inizio delle gare, un suo ministro invochi lo stop. Se Spadafora riteneva giusto fermare il campionato, perché non l’ha detto prima? Perché fino all’altra sera ha invocato la messa in onda delle partite in chiaro, se riteneva che non dovessero disputarsi? La risposta sta nella nota diffusa ieri, in cui l’appello a sospendere il campionato si collega al rifiuto di Lega e Sky ad aderire al suo invito, in nome di quelli che Spadafora definisce «interessi economici di realtà che pretendono di godere sempre di un trattamento privilegiato». Ma la ricostruzione del ministro fa acqua da tutte le parti. Perché Sky aveva dato la disponibilità a trasmettere in chiaro sui propri canali tv Juve-Inter e le altre partite di cui detiene i diritti. Altra cosa è la trasmissione libera su tutte le reti pubbliche e private, della quale né il concessionario, Sky, né il concedente, la Lega, possono disporre per legge. Sarebbe servito un decreto del governo che, in nome dell’emergenza, nazionalizzasse il servizio, riportandolo nella sfera pubblica, e forse riconoscendo un indennizzo alle parti.

Ma il calcio è un’economia di mercato solo quando conviene, o quando lo si guarda da tifosi e si pretende di tutto e di più. La responsabilità di sostenerlo in un momento drammatico cozza con l’evidenza che urgenze più gravi assediano il Paese. Spadafora quella responsabilità non l’ha assunta. Ha preferito lucrare politicamente sulla crisi sanitaria, lanciando l’appello al calcio free, condivisibile nel merito, ma irraggiungibile senza il suo impegno diretto. Salvo poi togliersi i sassolini dalle scarpe con Lega e Sky, facendo lo sgambetto al campionato poco prima del fischio d’inizio, e annunciando una legge «per mettere ordine in un mondo che - a suo giudizio - rischia di non rappresentare più valori etici e morali».

L’unica etica di cui abbiamo bisogno è quella della responsabilità, perduta tra le sirene del consenso. Sarebbe bene che tutti se ne rendessero conto. Assumendo le decisioni che competono al proprio livello istituzionale e annunciandole con una sola lingua. Se il calcio va fermato deve deciderlo il governo, valutando le indicazioni degli esperti. Ma con una scelta che è politica, perché mette in comparazione più beni: la salute degli atleti, la lotta all’epidemia, il danno economico e civile allo sport e ai tifosi. Che non sono sudditi di un’autocrazia che dispone delle loro vite, ma cittadini la cui libertà è già fortemente compromessa. Lo stesso vale per gli atleti, legittimamente turbati, perché più esposti al rischio sanitario. E più confusi dai giochi e dalle trappole dei loro presidenti, che prima hanno invocato il diritto a giocare, poi hanno rinviato le partite scomode in nome dell’emergenza, infine hanno litigato sul calendario. I presidenti hanno il ministro che si meritano. I calciatori e i tifosi avrebbero diritto a ben altro.


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