Il teatro sì, il pallone no

Il teatro sì, il pallone no© ANSA
Alessandro Barbano
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Ministro che vai, parole che trovi. Le parole di Franceschini agli uomini dello spettacolo: «Ascoltare gli artisti per tornare gradualmente alla normalità». E il Ravenna Festival pregusta l’apertura dal 3 giugno del teatro dal vivo, con pubblico pagante. Le parole di Spadafora alle istituzioni del calcio: «Senza accordo sul protocollo sanitario, sarà il governo a chiudere il campionato e a fare in modo che le società possano avere meno danni possibili». Incredibile, ma vero. Il 3 giugno il teatro a porte aperte sì, il calcio a porte chiuse no. Le prove degli attori sì, gli allenamenti degli atleti no.

E cosa dicono i club? I club si atterranno, rigorosamente, alle decisioni del governo, assicura il presidente della Lega, Paolo Dal Pino, ringraziando il ministro dello Sport. È lo spirito giusto per una ripartenza, o l’accordo per la divisione tra gli eredi, dopo il funerale del calcio? Lo scoprirete tra qualche giorno, cari lettori.

Ma questa ritrovata concordia si fonda su alcuni grossolani equivoci. Il primo: se il governo spegne il calcio, i club davvero pensano di essere sollevati dal pagare i calciatori e, allo stesso tempo, di poter pretendere il pagamento dei diritti tv da Sky? Lasciamo ai giudici, o agli arbitri, l’ardua sentenza, ma ci sia consentito un dubbio, che qui esplicitiamo. La chiusura del campionato per mano della pubblica autorità è certamente una causa di forza maggiore. Che rende impossibile tanto giocare le partite, quanto trasmetterle, e quindi pagare i diritti relativi. Incide cioè sulla corrispettività delle prestazioni di entrambi i contraenti, che siano la Lega calcio da una parte e le tv dall’altra, o piuttosto le singole società e i loro calciatori. Nessun contratto, per vantaggioso che sia, potrebbe prevalere su un principio di equità e di corresponsabilità del rischio, di fronte a un evento eccezionale come una pandemia. Perciò, pensateci bene, presidenti, prima di fare accordi a perdere con il Palazzo.

Il secondo equivoco riguarda il velato impegno del ministro affinché i danni della chiusura siano meno gravi. Di che parla, in concreto, Spadafora? Di un sostegno finanziario alle società? Di vantaggi fiscali? Di ritorni dalle scommesse? È tutto molto vago, quanto le promesse della politica in un momento in cui il Paese, superato il picco della crisi sanitaria, sta per sprofondare in una crisi economica e sociale senza precedenti nella storia repubblicana. L’informativa del premier Giuseppe Conte al Senato ha visto ieri, nel dibattito apertosi tra governo e Parlamento e tra maggioranza e opposizione, un florilegio di promesse e richieste senza limiti di spesa: dai sussidi alle partite IVA alla cassa integrazione per gli operai, dai prestiti a fondo perduto per le piccole imprese ai fondi per ricapitalizzare le grandi, dagli sconti e rinvii fiscali per tutti i contribuenti ai bonus per le famiglie. Per quanto robusto sia il salvagente dell’Europa matrigna, eppur provvidenziale, fino a che punto un Paese già gravato da un debito pubblico pesantissimo può indebitarsi, senza doverne rendere conto prima o poi? E ancora, se pure il governo riuscisse a raccattare di qua e di là qualcosa come 150 miliardi, gettandoli dall’elicottero sulla folla questuante, che impatto avrebbe una simile distribuzione di sussidi su un’economia che rischia nel 2020 di perdere fino a 10 punti di Pil?

Non solo il calcio deve ripartire, prima che sia troppo tardi. Ma anche tutte le attività di un Paese che rischia di uscire da questa tragedia ancora più distanziato dal resto d’Europa. Perciò è scoraggiante che politici, imprenditori e manager di grandi aziende, prima ancora che dei loro club, non sentano l’obiettivo della ripresa come una missione. E manovrino nell’oscurità per fermare il giocattolo.

Ripartire vuol dire anche avere una strategia del rischio. Che è il contrario di un protocollo fondato sulla quarantena obbligatoria, dove se si ferma uno, si ferma tutto. Vuol dire cambiare, nella fase due, le regole della fase uno. E vuol dire più di tutto avere una classe dirigente all’altezza della sfida, capace di condividere fiducia e responsabilità. Non di mandare al martirio la più grande fabbrica di emozioni del Paese, per dividersi avidamente le spoglie. Come fanno gli uccelli rapaci.


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