Se il calcio sveglia il Paese

Se il calcio sveglia il Paese© LAPRESSE
Alessandro Barbano
4 min

La finitezza umana almeno ha un vantaggio: anche un tempo infinito prima o poi finisce. Infiniti ci paiono da ieri sera gli ottanta giorni che hanno capovolto il mondo. La ripresa del calcio è uno spartiacque che chiude simbolicamente questo spicchio cruciale della nostra vita, iniziato la sera del 9 marzo. Quando il premier, annunciando il lockdown più rigido e più oneroso d’Europa, disse che non c’era ragione perché il campionato proseguisse. Da ieri ci sono tutte le ragioni per farlo ripartire. Sono state messe le une accanto alle altre in un’opera paziente di ricostruzione, che ha visto tenace tessitore il presidente della Federazione Gabriele Gravina, e che ha sfidato lo scetticismo, la depressione, i pregiudizi ideologici e gli interessi occulti, tutti nemici del calcio.

Una cascata di emozioni scatena l’annuncio che anche in Italia il campionato si risveglia, o piuttosto che il campionato risveglia l’Italia. Raccontatela come volete, ma è una notizia meravigliosa. Tanto meravigliosa che si può con nonchalance sentirla annunciare dal ministro più neghittoso, più indifferente, più inaffidabile che il calcio potesse aspettarsi. Da ieri sera il peggio della politica ci appare bello, perfino con tutto il suo carico di ipocrisia. Non sono tempi per sottilizzare sul trasformismo delle idee: alla fine di una guerra vincitori e vinti possono scambiarsi il ruolo. O mettersi tutti dalla stessa parte. Se stanno tutti dalla parte del calcio, va bene così. Gli uomini di governo pavidi, i presidenti furbastri, i virologi intransigenti hanno detto sì? Hanno compreso a tempo quasi scaduto che la chiusura del campionato sarebbe stata un harakiri? O piuttosto hanno dovuto accettare le ragioni del calcio con un sorriso a denti stretti? Diciamo loro grazie, grazie, grazie per ciò che non avete fatto, e pure avete il coraggio di intestarvi.

Ha vinto la voglia di libertà e di rinascita di un Paese, legato con una camicia di forza senza precedenti e senza uguali in Europa. Spezzarla è stata un’impresa durissima, perché la democrazia del divieto somiglia troppo a un regime. In Germania lo hanno capito dall’inizio: al divieto hanno sostituito lo “sconsiglio”. È un neologismo gentile, che si pronuncia da pari a pari tra uno Stato autorevole e un cittadino responsabile. Dove qui era tutto un divieto di fare, di vedere, di viaggiare, di uscire, lì era uno “sconsiglio” delle stesse cose. Che ha consentito alle fabbriche di restare in vita, alle famiglie di non soffocare, e perfino alla Bundesliga di ripartire appena possibile con una stretta di mano.

Adesso ripartiamo anche noi. E non conta se abbiamo avuto meno fiducia, se il pregiudizio sugli italiani anarchici e ribelli ci è costato una clausura securitaria, se la paura di assumere responsabilità ci ha consegnato per mesi alla burocrazia dei virologi. Conta che ci siamo svegliati. E, imitando la Germania, riusciremo a fare gli accordi che mancano. Con i calciatori sugli stipendi, con i broadcaster sui diritti tivù, e con gli stessi scienziati su una quarantena ragionevole.

Il tempo infinito è davvero finito. Tra pochi giorni il volto di Burioni sfumerà in dissolvenza dagli schermi di tutte le reti e al suo posto torneranno quelli di Ronaldo, Immobile e Lukaku. La sfida estiva per lo scudetto, così inconsueta e così incerta, manderà in una soffitta della storia tutti i maestri della pandemia. E il calcio tornerà a essere, anche per i suoi nemici, la più grande fonte di emozioni collettive del Paese. Allora forse anche quel retrogusto amaro che Gabriele Gravina, e noi con lui, sentiamo stasera, sarà scomparso. 


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