Plusvalenze, la giustizia non è la cura per ogni male

Plusvalenze, la giustizia non è la cura per ogni male© Getty Images
Alessandro Barbano
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La sentenza del tribunale che assolve Agnelli, De Laurentiis e altri 57 dirigenti accusati di plusvalenze fittizie ha un merito su tutti: archivia l’idea di una giustizia sportiva che si percepisca diversa e opposta rispetto a quella ordinaria, e che pretenda di sostituire la prova con il sospetto e il diritto con la morale. È un verdetto in linea di continuità logica con quello del collegio di garanzia del Coni su Juve-Napoli. Conferma che la legalità è una sola, quella definita dalle leggi dello Stato: secondo le quali il diritto alle prestazioni di un calciatore professionista rappresenta, per la società che lo acquista, un valore patrimoniale attivo di natura immateriale, che non può essere determinato in maniera oggettiva. Meno che mai può determinarlo la magistratura inquirente riferendosi ai parametri di un portale privato come Transfermarkt.
Questo non vuol dire che le plusvalenze fittizie non esistano. Vuol dire piuttosto che la giustizia sportiva, come ogni sistema sanzionatorio, non è la cura più adatta per i mali del calcio, ma solo un rimedio estremo. Le plusvalenze, nella dimensione abnorme che hanno raggiunto, sono il sotterfugio con cui i club hanno risposto ai vincoli del fair play, cioè al sistema che ha imposto fin qui il pareggio di bilancio. E che si poneva due obiettivi: tenere i conti in equilibrio e impedire che il capitale finanziario drogasse la competizione sportiva. Entrambi gli obiettivi sono stati mancati. Perché attraverso le plusvalenze il calcio ha nascosto i debiti sotto il cuscino, salvo trovarsi presto con le casse vuote e con i debiti al collo, senza che fosse consentito agli azionisti di ricapitalizzare le perdite. E perché i miliardi dei petrodollari arabi hanno egualmente fatto breccia, attraverso sponsorizzazioni e altre forme di influenza.
Questo epilogo insegna che un sistema tendenzialmente anarcoide non si mette in ordine con un eccesso di regole. Lo ha capito in ritardo l’Uefa, che adesso ha sostituito il vincolo del pareggio di bilancio con un tetto agli ingaggi, cioè un limite al costo del lavoro nella misura del 70 per cento dei ricavi. Meglio di prima, ancorché il tetto avvantaggi le società in grado di aumentare gli introiti. Il ritardo nella realizzazione di stadi moderni è per i club italiani una palla al piede.
Resta la necessità di scoraggiare il trucchetto di scambiarsi giocatori, supervalutandoli per generare utili fittizi. La soluzione migliore sarebbe quella di imputare l’intero costo dell’investimento all’anno in cui avviene l’acquisto, impedendo che attraverso l’ammortamento sia spalmato su più stagioni. Ma, più di tutto, il calcio italiano ha bisogno di riscoprire la sua vocazione manifatturiera e artigianale, fatta di vivai e di gestioni oculate. Il Villarreal e l’Eintracht, che eliminano Bayern e Barça, sono la prova che si può fare. Non servono salvatori con la toga, bastano bravi dirigenti.


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