Milano allo sprint scudetto

Due modi diversi di essere veloci, ma la supremazia di Inter e Milan è netta, tra la stabilità di Inzaghi e l’evoluzione continua di Pioli
Milano allo sprint scudetto© Inter via Getty Images
Alessandro Barbano
6 min

Questa è la sfida tra due modi diversi di essere veloci. I più veloci. Non è casuale perciò che si giochi a Milano, la città più dinamica d’Italia. Quella da cui sempre inizia la ripartenza, quando il Paese tocca il fondo. Il calcio è la lente del Paese. Con la più lunga assenza dalle coppe della storia - l’ultima fu alzata al cielo proprio a Milano da Mourinho ormai dodici anni fa - racconta il declino di un sistema. Con la partita a due per lo scudetto mostra invece l’embrione di una rinascita. Non è ancora uno spettacolo da far luccicare gli occhi, quello offerto da Inter e Milan. Ma è il meglio che c’è sulla piazza. Quanto basta per accendere una vigilia. Con San Siro che trabocca di passione e, per intanto, la trasferta dei tifosi nerazzurri a Bologna. Dove tutto ricomincia domani. 

Il rush finale è un Gran Premio del pallone tra due squadre che corrono di più, in classifica e in campo. Prendete Brozovic, il più ubiquo, il più razionale, il più determinante regista del campionato. Sabato contro la Roma stava dovunque. Ora nella sua area di rigore per un salvataggio sul contropiede di Abraham, ora in quella giallorossa per il tiro del due a zero che trafigge Rui Patricio. Ma anche Tonali, contro la Lazio, stava dovunque. E al posto giusto quando ha dato la stoccata finale che tiene ancora il Milan in gioco. Tra lui e Brozovic ci sono otto anni di differenza: ventuno il primo, ventinove l’altro. Raccontano due diversi modi di essere leader. E due diverse età delle rivali al titolo: ventisei anni in media per il Milan, ventinove per l’Inter. 

La maturità premia? Il Milan di Sacchi era giovane quanto quello di Pioli quando vinse la prima volta. Ma l’età media dello scudetto è assai più vicina a quella dei nerazzurri. Qui l’anagrafe definisce due modi diversi di essere veloci: quello potente e razionale del 3-5-2 di Inzaghi, fatto di geometrie essenziali e incursioni incontenibili, zero dribbling ma triangolazioni e scatti su palle lunghe; e quello creativo ed esuberante del 4-2-3-1 di Pioli, dove l’uno contro uno è l’essenza del gioco tra le linee, con Leao e Brahim Diaz giocolieri perennemente sospesi tra il prodigio e l’inconcludenza, e Tonali, Kessie e Bennacer a parargli le spalle. 

Chiunque guardi Inter e Milan con la memoria delle ultime settimane dice Inter. Perché l’Inter pare più concreta, più equilibrata, più collaudata. I tre perni del centrocampo, Barella e Calhanoglu oltre a Brozovic, sono lì dall’inizio del campionato. Hanno macinato non meno di duemilacinquecento minuti a testa, e chilometri à gogo. Tra gol e assist collezionano in tre trentadue azioni decisive. I loro colleghi milanisti si fermano a tredici. Ma l’equilibrio del centrocampo di Pioli è un approdo recente: oltre a Tonali, Bennacer e Kessie, si sono alternati Krunic, Saelemaekers e Bakayoko

Anche questa diversa gestione delle risorse racconta le due identità che le milanesi portano in dote alla lotta per lo scudetto. L’Inter è stabilità. Inzaghi ha ereditato una squadra a cui Conte ha dato carattere, orgoglio e voluttà di vittoria, ma soprattutto una fisionomia tattica molto netta. Al netto delle sostituzioni di Lukaku con Dzeko, di Hakimi con Dumfries e di Eriksen con Calhanoglu, l’Inter recita da tre anni lo stesso copione. Lo scientifico attendismo del tecnico leccese, che da sempre lo ascrive al partito dei risultatisti, con Inzaghi riceve un’interpretazione meno severa, ma altrettanto fedele.

Il Milan è sperimentazione. È un squadra costruita su un singolare equilibrio generazionale. Con pochi anziani al servizio di molti giovani. Senonché la chimica del gruppo è in continua evoluzione: sono i giovani a portare il testimone nell’ultima staffetta per lo scudetto. Se Pioli dovesse farcela, sarebbe la prova che hanno raggiunto la maturità per diventare leadership. E a quel punto il Milan non ne avrebbe per nessuno, perché lo scudetto coinciderebbe con l’inizio di un ciclo. 

Vista da fuori, la sfida di Inzaghi è più facile. Ha due punti in meno (72 contro 74), ma una partita in più da giocare. A Bologna non sarà una passeggiata. Ma poi ci sono quattro squadre di medio-bassa classifica, due delle quali praticamente certe della salvezza, Udinese ed Empoli, e due in bilico, Sampdoria e Cagliari. In ogni caso Pioli scambierebbe volentieri gli avversari con Inzaghi, se potesse: dovrà vedersela con Fiorentina, Verona, Atalanta e Sassuolo, e puntare a non lasciare sul campo neanche un punto, se vuole portare il titolo a Milanello.

Comunque vada, sarà uno scudetto conteso e, perciò, felice. Non come quello vinto facile da Psg e Bayern, che pare tanto un premio di consolazione all’esilio dal podio d’Europa. Qui l’Europa è tanto lontana che l’Italia ha preso a contentarsi delle sue sfide di campanile. E sotto lo stesso campanile si scontrano e si definiscono le nuove forme del calcio italiano. Alle sue incompiutezze sportive fanno riscontro le contraddizioni societarie: per una proprietà, l’Inter, che ha rapporti con i regimi, ce n’è un’altra, il Milan, che passa di mano tra appetiti arabi e potenziali conflitti di interesse. Ma la finanza corre alla stessa velocità del derby, che è poi la velocità di Milano, motore del calcio e del Paese. A nessuno verrebbe in mente di fermare una macchina che macina gioco e denaro. Altrove, nel pianeta del pallone, c’è ancora il vuoto. 


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