Il gregge euforico

Il gregge euforico© BARTOLETTI
Giancarlo Dotto
4 min

Roma, Torino, Milano, Bergamo, Firenze, La Spezia, Cagliari, Salerno. A ogni latitudine, la stessa storia. Biglietti a ruba, stadi esauriti. Ammucchiate euforiche che non si vedevano in Italia da anni, da molto prima dell’incubo in cui siamo precipitati a causa di un virus di cui, fino alla fine del 2019, ignoravamo l’esistenza. Ovunque. Che si giochi per vincere, per salvarsi o senza nessuna posta in palio, lo stesso mirabolante boom di vitalità. Non giustificato nemmeno dalla qualità dello spettacolo che passa sotto i nostri occhi. Detto brutalmente, le nostre partite, i nostri campi, i nostri stadi sono scenari di un calcio minore. E allora? Come si spiega questo ritorno enfatico, commovente e forse anche un po’ felicemente folle alla vita? 

Ritorno alla vita, certo. Voglia di lasciare alle spalle l’incubo. Ma c’è altro. Qualcuno l’aveva detto, la pandemia sarebbe stata sconfitta il giorno in cui ci saremmo liberati dall’assedio dei numeri e delle parole. I loop nefasti dei notiziari, le maschere non meno nefaste di virologi, epidemiologi, saltimbanchi della chiacchiera spacciata per sapere. E la maschera più nefasta di tutte. Quella del virus. Il Joker più cattivo di sempre. La maschera più sinistra di un Halloween che ci ha lasciato per due anni letteralmente senza respiro, una sfera puntinata, sinistramente simile a una mina molto vagante. In origine, fu un pipistrello. Da lì, per un tempo esagerato, un minuscolo dittatore, seicento volte più piccolo del diametro di un capello, ci ha messo all’angolo. Con il suo micidiale arsenale simbolico, prima ancora che con le sue azioni malvagie.  

La pandemia esaurisce di fatto il suo slancio, si fa per dire, vitale, quando parte la rivolta, quando la collettività esausta si ribella e sceglie, senza saperlo, ma vaccinandosi a più non posso, di convivere con il Joker e con il Vampiro. Come si convive con mille altri agguati e minacce. Torniamo alla vita quando cambia il ballo in maschera che ha infestato per due anni il nostro inconscio. A cominciare dalle mascherine, dietro le quali filtravano sguardi smarriti se non terrorizzati. Lo choc collettivo ci ha messo la museruola e chiusi in un carcere che va ben oltre le quattro mura. L’abbrutimento sociale. Il prossimo vissuto come minaccia. In mancanza di una bussola ci siamo fatti flagellare dalle maschere cattive di una lingua feroce perché povera e ripetitiva. 

Vale per il calcio, ma non solo. Basta fare un giro di questi tempi per i centri storici delle città, i luoghi turistici, le spiagge. Siamo tornati ad essere un gregge euforico, solidale, invece che pecore slabbrate dalla paura. Non si sa quanto immuni, ma certo riconciliati con la vita. Il terrore smascherato. Mascherine e maschere dello spavento via via soppiantate da maschere più allegre. Questo del ritorno alla vita e agli stadi è il calcio degli allenatori più che dei giocatori. Personalità forti, maschere accattivanti. Da Crisanti a Mourinho, c’è tutta la differenza del mondo. Non solo Mou, gli Allegri, gli Spalletti, i Gasperini, Juric e Italiano. Scalmanati, attaccabrighe, fanfaroni, scanzonati. Fusion felice dei Brighella, dei Pulcinella e degli Arlecchino di sempre. Gettano cappotti, invadono i campi, sparlano e straparlano. In comune, la mimica esagerata. Sono loro i mattatori al centro di queste feste catartiche che sono i nostri stadi ai giorni nostri.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

Serie A, i migliori video