Convivere con l'errore

Convivere con l'errore
Roberto Beccantini
3 min

Coraggio, Ionut Radu. Forza Mimmo Criscito. Su col morale, Pietro Terracciano. Chi scrive, annotò in un libercolo che Paolo Rossi aveva disputato il Mondiale del 1978 da juventino, quando, viceversa, era ancora del Vicenza. Senza pressioni, senza rigori alti come l’Everest. Convivere con l’errore, bisogna. E, a volte, conviene. In fin dei conti, qual è la nostra partita del secolo? Italia-Germania Ovest 4-3 del 17 giugno 1970, all’Azteca di Città del Messico. Novanta minuti di calcio sinceramente astemio che, senza i fiumi di champagne dei supplementari, avremmo chiuso a chiave in un cassetto. E buttato via la chiave. Invece. 

L’ultimo dibattitone si è acceso attorno a Manchester City-Real Madrid 4-3. Pep Guardiola, il più guru, contro Carlo Ancelotti, il più para-guru. Annibale Frossi, il dottor Sottile che considerava «perfetto» solo lo 0-0, avrà maltrattato le nuvole dallo sdegno. E Gianni Brera, lui, avrà irriso le «fotte» difensive di Daniel Carvajal e Aymeric «Laporte ouverte» (è di Gino Cervi, filologo e breriano nei secoli). Sul web si è parlato di abbuffata tra «scapoli e ammogliati». Qualcuno ha riesumato addirittura Roma-Juventus 3-4 del 9 gennaio, invocando dalla corte lo stesso trattamento. Calma. La bellezza salverà il mondo, ci hanno tramandato. Sì, ma quale bellezza e, nel dettaglio, cos’è la bellezza nello sport? 

È un valore relativo e, per questo, cangiante. Da non confondere con la grandezza: se uno vince, poniamo, sei scudetti, è un grande. Liberissimi poi, fra i cento che avete individuato e catalogato, di piazzarlo in coda. Il piacere risponde ad altri canoni, più personali. Per il sottoscritto, l’ordalia dell’Etihad Stadium resterà memorabile perché è stata l’eccellenza, e non già la broccaggine, a propiziare gli sgorbi. Opinioni, non fatti. Ognuno si regoli come crede. La velocità di crociera, a parte modiche soste e sieste marziali, era supportata da una precisione tecnica così raffinata (a quei vortici, a quei vertici) da far sembrare Kevin De Bruyne un chitarrista, Karim Benzema un batterista, Riyad Mahrez un violinista. 

Facoltosi e capitalisti, certo. Ma pure brillanti, aggettivo che ci scoccia agganciare a coloro che «hanno avuto la fortuna di governare una fortuna», slogan dedicato a Ramon Mendoza, ex presidente dei Blancos. Per Arrigo Sacchi, Simone Inzaghi è antico; per Fabio Capello, no. Di Gian Piero Gasperini dicono: bravo, ma che carattere. All’estero replicherebbero: che carattere, ma bravo. Frédéric Hermel ha scritto, nella biografia di Zinedine Zidane, che «l’indispensabile Makélelé, [era] soprannominato il “Robin Hood al contrario”, perché in qualità di centrocampista del Real ruba il pallone ai poveri per darlo ai ricchi». 

Sarebbe consigliabile scansare la trappola, saccente e seccante, del conflitto tra estetica ed etica. Per carità. Tanto, sarà (quasi) sempre il risultato a indirizzare i giudizi. Dopo Inter-Roma 3-1, il gol di Denzel Dumfries «centravanti» aveva proiettato Simone Inzaghi ad altezze siderali. Il k.o. di Bologna lo ha riconsegnato al tribunale popolare dei «però».


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