Corsa scudetto tra Milan e Inter, Pioli e Inzaghi ai titoli di testa

Comunque vada domenica, chi vince il tricolore fa un’impresa: il milanista perché stravolgerebbe il pronostico, l’interista per il tono epico della conquista
Corsa scudetto tra Milan e Inter, Pioli e Inzaghi ai titoli di testa© Inter via Getty Images
Giancarlo Dotto
6 min

Comunque finirà, sarà l’ubriacante prima volta per l’uomo di Parma o per quello di Piacenza. Se nasci figlio di nessuno non è facile diventare qualcuno o padre di qualcuno, ma se arrivi alla mezza età dei cinquant’anni che sei nessuno, diventare qualcuno diventa decisamente un affare complicato. Non me ne vogliano Simone (Inzaghi) e Stefano (Pioli), due persone eccellenti a giudizio unanime, due allenatori capaci, ma è chiaro che qui il “nessuno” si riferisce al feroce quanto arido e dunque ottuso parametro delle coppe lucidate e messe in bacheca.

Zero titoli come allenatore, nel caso di Pioli in più di venti anni di panchina, se escludiamo un campionato vinto con gli allievi del Bologna. Gli è andata molto meglio con gli scarpini ai piedi, titoli a bizzeffe, ma quasi non c’è gusto avendo giocato tre anni a rimorchio della grande Juventus di Platinì, Scirea, Tardelli, Cabrini, Furino e Boniek. Meno afasico il palmarès di Simone Inzaghi da allenatore. Diverse coppe italiane tra Lazio e Inter, alla corte di Lotito e alla guida di squadre mai banali, poi a Milano sulla scia di Antonio Conte.

Detto questo e ribadito anche che ci sono salvezze (per dire, quanti titoli vale la possibile, probabile salvezza di Nicola alla Salernitana?) o promozioni che valgono almeno quanto uno scudetto, l’eventuale scudetto vinto in una piazza come Milano sarà la fionda per quel transfert assoluto dall’esercito dei “nessuno o quasi” alla pattuglia eletta dei “qualcuno”. La storia da raccontare alle folle, se non a se stesso (Arrigo Sacchi, ad esempio, ma non è il solo, preferisce bearsi dei suoi successi al Fusignano). In comune i due, oltre l’origine emiliana e i trascorsi non di prima filla come calciatori, hanno anche il passato a Formello, più corposo e benevolo per Simone, decisamente meno per Stefano che uscì stremato dalle stringhe di Lotito, piccolo e smunto in una divisa troppo grande.

La storia di Pioli

La storia di Stefano Pioli è la più interessante. Lui è davvero a due centimetri dalla festa esagerata. Perdere con il Sassuolo, in quanto a suicidio calcistico, finirebbe sul podio con il Milan di Rocco a Verona, la Roma di Eriksson con il Lecce e l’Inter di Cuper sempre all’Olimpico con la Lazio. Vincere lo scudetto con questo Milan sarà, sarebbe, una vera impresa. Per la prima volta andrebbe, intanto, a sfatare l’infausto anagramma che lo perseguita: “Stefano Pioli” - “Il tifoso pena”. Il tifoso rossonero è pronto a esultare dopo una vita. Lo vincerebbe, lo scudetto, con un organico considerato, a detta di tutti gli analisti, inferiore a Inter, Juventus e lo stesso Napoli. Secondo alcuni, alla pari con Lazio e Roma. Senza poter quasi mai contare sul suo totem carismatico Ibra, avendo perso lungo la strada tutti i difensori centrali e avendo perso all’origine il più forte portiere del mondo. Qualificazione Champions? Magari! Un trionfo. Uomo mite e fin troppo consapevole dei suoi limiti, Stefano ha fin qui sempre raccolto consensi e ammirazione senza mai riuscire a tradurli in sostanza e incassando il non detto ormai consolidato: bravo allenatore ma non da grande club. La personalità. Eccolo il tema che spuntava ogni volta come un fastidioso bubbone nella storia di Pioli. Che, a differenza di Inzaghi, l’occasione importante l’aveva avuta, proprio all’Inter, la squadra incisa nel suo cuore per inciso, una festa all’inizio, una via crucis alla fine, cacciato a tre giornate dalla fine. Più che mai grande uomo a Firenze, in una storia di lutti e di umanità, Pioli diventa finalmente quello che è, un grande allenatore, al Milan. La storia è sempre quella: l’arte degli incontri. Due dirigenti fenomeni, Maldini e Massara, lo rafforzano, uno sciamano non meno fenomenale, Zlatan, lo trasforma. Anche senza giocare, Ibra ha zlatanizzato il Milan. Ha trasformato uomini e cose intorno a sé. Ha fatto di Pioli, fin lì un onesto e placido navigante, un eroe destinato a emulare i Sacchi e i Capello. La sua erre, che prima era moscia, oggi è francese. Con le sue smanie da lupo, ha costretto Pioli a scoprire la propria grandezza, ad assumerla, senza più timidezze. Da milanista, Pioli ha smesso di chiedere scusa di esistere. Naturalmente nulla sarebbe stato possibile se, lungo la strada, non avesse trovato giganti inattesi come Maignan, Kalulu, Tomori o attesi ma con qualche riserva come Hernandez, Tonali e soprattutto quella divinità di Leão.

I pregi di Inzaghi

La spada di Damocle di Simone Inzaghi si chiamava Antonio Conte. Arrivare dopo di lui, dopo la sua impresa, avendo perso Lukaku e Hakimi. Ed essendo l’antitesi del tremendismo contiano e dei suoi furori da feroce salentino. Un uomo moderato, un allenatore di buon senso, capace di sintonie non banali con i calciatori. Della specie dei Carlo Ancelotti e dello stesso Pioli, per capirci, ma senza il genio contadino del primo e l’acume tattico del secondo. Dietro le sue posture da damerino, un uomo autentico e passionale che lascia tutto quello che ha nel suo mestiere, tanto o poco che sia, voce inclusa (l’unica cosa in comune con l’altro afono Conte). Lo scudetto, nel suo caso, sarebbe una sbornia solo perché oggi, alla vigilia, altamente improbabile e perché successivo alla felicità sempre preziosa di aver mandato a casa in tutta mestizia quelli della Juve in Coppa Italia. Organico alla mano, e andamento alla mano, questo campionato Inzaghi avrebbe dovuto vincerlo con giornate di anticipo. Lui, uomo onesto, è il primo a saperlo.


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