La Premier che possiamo permetterci

La Premier che possiamo permetterci
Ettore Intorcia
4 min

Se tutti gli indicatori vanno nella stessa direzione, c’è poco da prendersela, persino quando John Obi Mikel ci sbatte in faccia con spocchia che la Serie A non è mica come il campionato inglese, visto che da noi «si può giocare fino a 40 anni». La Premier è il campionato più ricco, il più televisivo, il più appetibile sul piano commerciale, il più globale. Non riuscendo a tenere il loro ritmo, o addirittura non provando neanche a compiere qualche passo nella direzione giusta in termini di comportamenti virtuosi (crescita dei ricavi, ripartizione più equa delle risorse, investimenti sulle infrastrutture), dobbiamo accontentarci di portare a casa qualche souvenir. Accettando in partenza un rapporto di sudditanza: se la Premier vuole portarci via un talento non ci resta che passare all’incasso.
Matic alla Roma, Origi al Milan. E poi i ritorni: Lukaku all’Inter, Pogba alla Juve. In un mercato che ancora non decolla, con quasi tutte le big alle prese con esuberi da piazzare e monte ingaggi da adeguare alle nuove regole Uefa, le poche certezze arrivano tutte da Oltremanica. Quattro eccezioni, quattro scelte in momenti assai diversi delle rispettive carriere. Matic è il leader che serviva alla Roma, era svincolato e non poteva non rispondere all’appello del suo mentore Mourinho. Origi doveva rimettersi in gioco dopo il Liverpool e ha scommesso sul nuovo ciclo del Milan. Quanto a Lukaku e Pogba, presto detto: la Serie A è la comfort zone nelle quale rifugiarsi per tornare protagonisti. 
Difficile immaginare altro shopping italiano in Premier. Semmai dobbiamo stupirci del fatto che nessuno dei nostri top player sia già finito in Inghilterra. Ci approderà probabilmente De Ligt, conteso da Chelsea e United (che hanno perso Skriniar, più orientato verso Parigi), con la Juve che spera di piazzare verso Londra e dintorni anche un po’ di esuberi. Ma è già tanto non aver perso Dusan Vlahovic, che la Juve ha tolto dal mercato a gennaio anticipandone l’acquisto dalla Fiorentina. Un raro caso di convergenza di sistema: i soldi sono rimasti in Serie A, i valori tecnici pure.
Nelle ultime due stagioni la capacità di spesa della Premier League è stata 8-10 volte quella della Serie A. Prendiamo l’annata appena conclusa. La Premier ha chiuso affari per 1,67 miliardi di euro con un saldo negativo di 890 milioni di euro; la Serie A ha chiuso operazioni per 797,87 milioni ma con un risultato negativo di 104,12 milioni di euro. In sostanza, la solita vecchia regola: prima di comprare, abbiamo abbondantemente venduto; gli altri semplicemente hanno riempito il carrello. D’altra parte i rapporti di forza sono cristallizzati: i dati della stagione 2020-21 dicono che la Premier fattura oltre 5 miliardi di euro, di cui 3,5 solo per i diritti tv, praticamente il triplo dei contratti chiusi dalla Serie A (1,123 miliardi).
Ma in Inghilterra, ecco vera la differenza, la forbice tra le big e le medio-piccole è assai più ridotta rispetto al nostro campionato. Merito di una diversa ripartizione dei diritti tv che divide in parti uguali la fetta più grande della torta. In Premier la prima (178 milioni) prende una volta e mezzo l’incasso dell’ultima (122 milioni); da noi la prima (72 milioni circa) rastrella quasi il triplo delle squadre di coda (26 milioni). A queste condizioni diventa impossibile competere non solo con il City dello sceicco Mansour o con il Newcastle finanziato dall’Arabia Saudita, con i colossi dei fatturati come United o Liverpool, ma anche con i club appena a ridosso della zona Uefa. Per le prime quattro della Premier, contando i contratti dei più giovani ed escludendo i bonus, lo stipendio medio oscilla tra i 4 e i 5 milioni di euro netti a stagione. Da noi è quello il tetto che si sono imposti anche club che partecipano alla Champions: Osimhen a Napoli ne prende 4, Giroud al Milan 3,5. Così non c’è partita. 


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