Ci sono quattro vittorie di fila senza un solo gol subito, il derby d’Italia che vale il sorpasso sull’Inter, venticinque punti e la miglior difesa del campionato, la buona prova dei giovani Fagioli e Miretti e il crescendo di Kostic. Ma bastano queste evidenze per dire che la «juve» è tornata la «Juve»? Con la suggestione della vittoria negli occhi, potremmo azzardare, a caldo, che è proprio così. Che finalmente Allegri ha restituito ai bianconeri le geometrie per affondare, l’equilibrio tattico per proteggersi, il carattere per dominare. Ma una radiografia onesta della notte dell’Allianz Stadium lascia ancora molti punti in sospeso. Perché il successo ha due facce. Quella abulica del primo tempo, confusa in una guerra di nervi in cui la paura di perdere sopravanza ampiamente la voglia di vincere, e Szczesny non le prende solo perché l’Inter lo grazia in almeno due occasioni. E quella volitiva della ripresa, quando la squadra bianconera cambia marcia, e affonda sulla fascia sinistra con un irrefrenabile Kostic, trovando il burro nella retroguardia interista. Sicché c’è ancora da chiedersi quanto la vittoria sia merito di Allegri e quanto sia demerito di Inzaghi.
L’Inter spreca il dominio del primo tempo, osando meno di ciò che potrebbe. Non solo perché fallisce il gol con Lautaro e Dzeko, ma perché rinuncia a sfruttare la maggiore velocità sul recupero palla e ad assediare un avversario che pare allo sbando. Non affonda il colpo che pure sarebbe alla sua portata, in nome di una prudenza che sconfina in un tatticismo d’antan. Quando poi rientra dagli spogliatoi nella ripresa, Inzaghi si accorge che la musica è cambiata. Perché, mentre per la Juve suona la sveglia, la stanchezza sfibra il palleggio nerazzurro a centrocampo, allarga le maglie dell’interdizione, rallenta la capacità di giocare tra le linee, scopre il vero limite di questa squadra: cioè la sua incapacità di declinare la forza agonistica e l’ottima dotazione tecnica in creatività del gioco. Ancorché individualmente temibile, l’Inter risulta collettivamente scontata negli ultimi trenta metri, cioè la zona del campo dove la Juve ostenta il primato dell’impenetrabilità.
Certo, senza Lukaku, Brozovic, e Inzaghi direbbe anche Perisic, si fa presto a pretendere che l’Inter sia l’Inter, cioè la squadra che ha cucito sulla maglia uno scudetto, e sfiorato il secondo dopo la partenza del belga al Chelsea. Dzeko e Lautaro da soli sono due ottimi attaccanti, ma non una macchina da guerra. La loro continuità subisce letarghi di stagione che talvolta hanno un costo esiziale. Se n’è avuta la prova nella ripresa, quando l’argentino, forse con la testa al Mondiale, ha fallito il pareggio, sprecando sui piedi di Szczesny un assist di Correa che valeva più di un rigore. Al netto di questi limiti, la squadra di Inzaghi non ha mai mostrato, almeno in campionato, una tenuta tattica e caratteriale in grado di imporsi per novanta minuti. Non sarà un caso se conta già cinque sconfitte in tredici gare, una zavorra troppo pesante per chi ambisce al tricolore.
Il derby d’Italia è il crocevia di convalescenze abbozzate e di patologie che rischiano di cronicizzarsi. Se in un simile quadro clinico riesce anche a regalare scampoli d’emozione, bisogna accontentarsi. A queste latitudini il piatto del campionato non offre molto di più.