Gasperini esclusivo: "Noi siamo la speranza"

Dall’impresa col Valencia al drammatico ritorno nella realtà di Bergamo e di un’Italia stravolta dall’emergenza: il tecnico dell’Atalanta ci racconta le sue emozioni opposte
Gasperini esclusivo: "Noi siamo la speranza"© Getty Images
Ivan Zazzaroni
7 min

L’ho svegliato io. Alle diciassette e un quarto. Un quarto di Champions, naturalmente. «Ero cotto, siamo tornati alle tre e mezza. E mi sono subito reso conto…».

Di quello che avete fatto?
«… ’sta cosa… Siamo precipitati in una realtà che sapevamo essere terribile, ma non fino a questo punto. L’evoluzione da domenica è stata impressionante, terribile. Quattro giorni fa era un mondo, lunedì un altro, oggi un altro ancora. Il passaggio da Valencia ci avrà forse allontanati temporaneamente dalla realtà. Atterriamo lunedì in piena festa, Las Fallas, celebrano l’arrivo della primavera, fanno baldoria per una settimana, centocinquantamila persone in piazza, un’atmosfera che non riesco a descriverti. Un dirigente del Levante, un italiano, mi spiega che per i valenciani è il momento più importante dell’anno. Noi li guardavamo come fossero dei pazzi. Poi c’è stata la partita a porte chiuse, la soddisfazione del passaggio ai quarti, tutto è finito non appena abbiamo aperto gli occhi sull’Italia».

Quello di Gian Piero Gasperini non è uno sfogo ma una riflessione a voce alta che non posso e non voglio interrompere. «Oggi non sappiamo cosa cazzo fare, vorremmo allenarci un po’. Non chiediamo tanto. I ragazzi sono disorientati. Ci dicono di stare in casa, di non uscire, non è semplice, ci adegueremo perché queste sono le direttive del governo. Il momento… Come tutti, non abbiamo un’idea del futuro. Solo incertezze. Sulla serie A, sulle coppe. Si andrà avanti? Giocheremo ancora? Sappiamo solo che abbiamo superato il turno e che siamo messi bene in campionato. Tra un po’ chiuderanno tutto, le imprese. Viviamo sospesi. Il centro di Zingonia è chiuso, siamo venti più lo staff, vorremmo fare due corse, una partitella. Naturalmente seguendo le indicazioni dei medici e rispettando il protocollo. “Troviamoci”, insistono i ragazzi. Ma troviamoci dove, se non è consentito? Nelle strade ci sono i posti di blocco, la percezione del dramma adesso è completa. La peste, è come la peste. La nostra vita è cambiata, la vita di tutti è cambiata. Un mondo rovesciato. Ho visto che hanno spostato le partite di Europa League, tra un po’ toccherà anche alla Champions, immagino. L’Italia è avanti di venti giorni rispetto ad altri Paesi, dubito che qualcuno possa azzardare delle previsioni sulla fine di questo incubo. Per quel che ci riguarda, nel giro di poche ore siamo passati dalla gioia per aver realizzato una grande impresa alla consapevolezza di vivere qualcosa di inimmaginabile. Sento soltanto le sirene delle ambulanze. State a casa, state in famiglia, non uscite. E da queste parti, in Lombardia, siamo sufficientemente organizzati, pur se in difficoltà. Mi chiedo cosa potrebbe accadere a Roma, a Napoli». Si concede una pausa e poi chiosa: «Ci adatteremo, è la specialità di noi italiani. La vita prevale sullo sconforto. Siamo dentro un altro mondo, peggiorato di brutto. Questa però lasciamela dire: vuoi sapere cosa mi ha disturbato?».

Cosa?
«Le solite banalità sul mondo del calcio, i privilegiati, i grossi guadagni, gli interessi da proteggere. Mi ha dato molto fastidio. Le parole del politico di turno che fa della demagogia l’unica forma di comunicazione. Avevo gradito quel passaggio del primo decreto che consentiva al calcio professionistico di proseguire a porte chiuse, perché la funzione sociale del calcio soprattutto in situazioni di emergenza è chiara. Quando siamo rientrati a Bergamo non c’erano tifosi ad attenderci, giustamente. Ma da stamattina abbiamo ricevuto centinaia di attestati, messaggi di persone che per novanta minuti non hanno pensato che al pallone. Il calcio come antidepressivo, come forma di sopravvivenza, è così che lo considero. Le abitudini sono importanti, e non solo per noi italiani la visione di una partita, una parentesi di leggerezza, può risultare addirittura terapeutica. Hanno voluto dare un segnale forte, bah. Bisognava andare avanti con le porte chiuse, io la penso così».

Di calcio parliamo, adesso. Gian Piero, qual è stato il momento in cui hai capito che era fatta?
«Dopo il secondo di Ilicic. Sull’1 a 1 ci poteva stare ancora un po’ di timore, a volte facciamo delle minchiate… Siamo riusciti a prendere gol da una nostra rimessa laterale. Avevo notato però che giocavamo meglio, eravamo superiori in tutto».

Cosa o chi ti ha sorpreso di questa Atalanta?
«La nostra prolificità, riusciamo a segnare tanti gol e sempre con qualità, con ottime giocate e la partecipazione di centrocampisti e difensori».

Per ben cinque volte, quest’anno, avete fatto cinquina. Roba dell’altro secolo.
«Siamo tornati ai tempi di Charles, Sivori e Boniperti e al GreNoLi».

Siete un modello ormai per tutti quei club che non dispongono di fatturati top.
«Siamo un segnale di speranza. Ma io parto dal presupposto che più che sulle sottovalutazioni oggi bisognerebbe puntare il dito sulle sopravvalutazioni di certi giocatori. Intendo dire che il valore economico di un calciatore non è direttamente proporzionale alla sua capacità di incidere sulla partita e di risolverla. Gomez e Ilicic, per via dell’età, potranno anche non avere un valore di mercato elevatissimo, ma se devo scegliere tra loro e un calciatore da 50 milioni scelgo loro».

Il presidente Percassi, al quale i soldi non mancano, potrebbe permettersi anche acquisti da Juve, eppure…
«Ha un’attenzione bergamasca alla spesa. Non è che non ha voglia di spendere, ha solo il timore di spendere male». Il telefono mi restituisce un sorriso. Il primo.

E tu quando hai capito di essere cresciuto come tecnico?
«Con le coppe ho alzato il livello, le coppe mi hanno confermato che la strada che avevo sempre seguito era quella giusta. Cresci solo attraverso la ricerca del gol, con un calcio di proposta. Accettando anche qualche rischio. Gli avversari vanno affrontati con coraggio. Se ti chiudi, se provi innanzitutto a non prenderle, non è detto che ti vada bene. Borussia, Lione, Everton, sono stati questi i passaggi fondamentali. I risultati positivi, poi, sono l’ingrediente-chiave: danno alla squadra la consapevolezza. Ti faccio un esempio: se dopo averne presi cinque a Manchester avessimo affrontato il City chiudendoci per ottenere una sconfitta onorevole, oggi non saremmo ai quarti. Là nel secondo tempo ci avevano demolito con la qualità e la velocità. Abbiamo voluto giocare come sappiamo, la fortuna ci ha assistito quando hanno sbagliato il rigore e quel pareggio ci ha dato la spinta decisiva».


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