Sartori esclusivo, trent’anni di verità e colpi: Bologna profuma di nuovo

Dalla favola Chievo al fenomeno Atalanta, all'emozionante squadra di Motta: dietro c'è sempre lui, il dirigente figlio di un'intuizione di Luigi Campedelli
Sartori esclusivo, trent’anni di verità e colpi: Bologna profuma di nuovo© LAPRESSE
Ivan Zazzaroni
8 min

A sessantasei anni si descrive così: «Tardivo, non intuitivo». Lui ha bisogno di vedere, rivedere, riflettere, correggere con tanto di tormenti, e confrontarsi - il più delle volte con se stesso - prima di prendere qualsiasi decisione su un giocatore, un allenatore, un’opportunità, un no. «Sono anche uno stanziale» chiarisce Giovanni Sartori, l’uomo delle tre favole, l’ultima in costruzione. La carriera lo conferma: ventun anni al Chievo («trenta, per essere più precisi: trascuri i cinque da giocatore e il periodo da allenatore in seconda»), otto all’Atalanta, sei dei quali con Gian Piero Gasperini. «Il tuo gemello» mi stuzzica «due bei caratterini, ma non mi farai parlare ancora di lui…».

Giusto due parole due.
«Ti dico solo che insieme, e insieme al gruppo di lavoro, sono state fatte cose eccezionali, indimenticabili. Poi, che non ci fosse tanta compatibilità tra noi, è un dettaglio. Trascurabile, oggi. Lavoravamo per un interesse superiore, il bene dell’Atalanta». L’intuitivo della sua storia è stato e resta Luigi Campedelli, il padre di Luca. «Un giorno il presidente Luigi mi chiama e mi fa: ‘Devi smettere di giocare’. Avevo solo trent’anni, avevo lasciato lo scudetto al Milan nel ‘79 per scendere dopo poco tempo, e qualche esperienza, in Interregionale col Chievo. Ero diventato l’attrazione del campionato. ‘Devi fare l’allenatore e dare una mano a Bui’, le sue parole, ‘e qui potrai restare per sempre’. O mi considera una pippa, ricordo di aver pensato, o intravede in me qualcosa che io stesso non riesco a individuare. Oppure, ultima ipotesi, sono scomodo anche come allenatore». «Gli do retta, non avrei potuto fare altrimenti. Saliamo di categoria, e il presidente torna alla carica: ‘Lascia stare la panchina, frequenta il corso da direttore sportivo’. Dieci anni prima, più per curiosità che per altro, avevo completato quello organizzato da Ciccio Mascetti». Sartori il tardivo è anche cauto, fin troppo, e riservato: non è portato alla sincerità dolorosa, alle rivolte minime e di effetto. L’ombra è la condizione naturale, ogni tanto nelle sue risposte si insinua una nota sentimentale.

Hai avuto un inizio singolare.
«Tanto più singolare se consideri che comincio a settembre del ’92 e pochi giorni dopo, il 15, muore Luigi Campedelli. Vado nel panico. Gli subentra Luca, ventiquattro anni, decide di proseguire sulla strada del padre. Giovanissimo lui, giovane io e giovane Malesani, straordinario Alberto. Nel ’93 al gruppo che l’anno prima si era salvato all’ultimo minuto, aggiungiamo il primo acquisto, Maurizio Rinino dalla Vogherese».

Quanto lo pagaste?
«E chi se lo ricorda? Cinquanta milioni di lire? Cinquanta forse no, erano troppi per il Chievo».

Il primo agosto 2014 passi all’Atalanta. Una sorta di tradimento.
«Per il Chievo avevo rinunciato a proposte importanti anche di club di prima fascia pronti a garantire quattro volte quello che prendevo. Per anni aveva deciso il cuore, poi sono successe cose e ho accettato l’offerta dell’Atalanta. Ma quale tradimento? Stai scherzando? La verità è che al Chievo facevo ormai parte dell’arredamento».

Mi hai invocato di non parlare di Gasperini.
«E tu soddisfa la mia richiesta, devi fare la cosa più giusta».

Ora capisco perché ti danno del “prete”.
«Ma che senso ha tornarci sopra? Abbiamo fatto bene, anzi benissimo e la risolvo così».

Possiamo parlare di Mihajlovic, allora?
«Sapevo che ci saresti arrivato. Io Sinisa l’ho vissuto troppo poco. Ho firmato per il Bologna a fine maggio, il 31 mi pare, e Sinisa l’ho incontrato la prima volta a inizio giugno. Ci siamo confrontati su tante cose, su Cambiaso, su Ferguson, poi c’è stato il nuovo intervento al quale si è dovuto sottoporre e per quaranta giorni è rimasto in ospedale. Solo qualche contatto telefonico. C’era fiducia, vedrai che tornerà come dopo la prima operazione, mi ripetevano a Casteldebole… La nostra è stata una conoscenza troppo breve. Il 12 settembre la società ha fatto una scelta. Conservo il ricordo di qualche chiacchierata anche intima».

Come sei, anzi siete arrivati a Thiago Motta?
«Faccio sessantasei a fine mese ma sono ancora curioso come un bambino. Qualcuno ha detto che nulla è peggio di una curiosità che si blocca, nel mio caso è da sempre la principale spinta propulsiva. Thiago Motta mi incuriosiva parecchio. L’avevo seguito allo Spezia perché lì avevamo tre giocatori dell’Atalanta, inoltre trovavo interessanti Nzola e Kiwior. Ero rimasto colpito dal calcio che faceva, coraggioso, propositivo. Ho mandato uno dei miei collaboratori a seguirlo per una settimana e mi sono fatto un’idea più precisa».

Era la prima scelta, dopo l’addio a Mihajlovic?
«È stata una scelta presa collettivamente, ossia condivisa con il presidente, l’amministratore delegato e Marco (Di Vaio, nda)... Thiago è un grande lavoratore e un grande comunicatore, molto diretto e deciso con la squadra, arriva subito ai ragazzi. Posso dire che ha migliorato il mio pensiero».

In trent’anni di attività quanti giocatori hai acquistato? Mai fatto il conto?
«Se consideri che nei ventuno anni di Chievo ne prendevo dieci a sessione, mi viene da risponderti, è un calcolo a spanne, circa 800, forse qualcuno in più. Un tempo era più difficile sbagliare, c’era un’osservazione diretta, personale, più articolata, completa. Oggi hai la possibilità di monitorare tutti insieme 200 giocatori, ma non riesci a esaminarli con la stessa attenzione, la stessa precisione».

Un grande rimpianto?
«Drogba, l’avevamo già preso all’Atalanta. Saltò per un’inezia. E adesso non chiedermi quanto lo pagavamo, non pretendere troppi sforzi di memoria».

Ti faccio sei nomi: Hojlund, Thiaw, Daniliuc, Doig, Dia e Schuurs. Fosti il primo a seguirli e a segnalarli, ma poi se li sono presi altri.
«Il destino ha voluto così. (Sorride). Alcuni erano imprendibili. Quello che avevo praticamente chiuso tanto col club quanto col giocatore è Balerdi del Marsiglia. All’ultimo momento si è infortunato un difensore e l’OM ha bloccato il trasferimento… Ma posso assicurarti che la società ed io siamo soddisfatti di quelli che abbiamo. Motta ha creato un gruppo solido. Mi hai indicato sei giocatori molto bravi. Il più impressionante è Hojlund, l’estate scorsa tutti impazzivano per lui. Attaccante fantastico».

Il Bologna è in corsa per un posto in Europa in una stagione segnata dal dominio quasi imbarazzante del Napoli.
«Che gioca un grande calcio, è un piacere vederlo. Le altre big stanno deludendo, sotto le prime sei, sette c’è un notevole appiattimento. Un lavoro eccellente lo sta sviluppando il Lecce, lo davano tutti per spacciato e invece si è rivelato di valore. Corvino si è mosso non bene, ma benissimo».

Giovanni, è possibile stabilire il valore oggettivo di un calciatore?
«Ci si può avvicinare grazie agli strumenti di cui disponiamo oggi: gps, dati prestazionali sempre più sofisticati e completi, l’occhio. Ma poi, certo, possono influire altri fattori quali le tendenze del mercato, le necessità contingenti, l’abilità degli operatori. Con un po’ di fatica si potrebbero ottenere ottimi risultati e un miglioramento normativo dell’intero sistema. Ma bisognerebbe darsi da fare».

Quanto incide, nel calcio della preparazione tattica diffusa e degli staff, un allenatore sulle fortune della squadra?
«Cito Ancelotti, che ha detto: senza i buoni giocatori l’allenatore non va da nessuna parte».

Ancelotti, Allegri, Mourinho e Conte: a chi va la tua preferenza?
«Sono per il calcio di intensità e aggressività. Venti per cento ai primi tre e il restante quaranta a Conte».

Noterai che ho tenuto fuori Gasperini.
«Adesso ti tolgo il saluto». E ride.


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