<span style="line-height: 20.7999992370605px;">Heysel, il racconto di Pizzul: «Ecco come ho vissuto quel dramma»</span>

Intervista al telecronista: «Furono momenti angosciosi»
Heysel, il racconto di Pizzul: «Ecco come ho vissuto quel dramma»© ANSA
8 min

ROMA - Ore 20:10 del 29 maggio 1985. Rai 1 si collega in diretta con lo stadio Heysel di Bruxelles, per trasmettere la finale di Coppa dei Campioni tra il Liverpool, detentore del trofeo, e la Juventus di Platini, che l'anno prima ha alzato al cielo la Coppa delle Coppe. Il telecronista, Bruno Pizzul, ancora non sa che sta per vivere uno dei momenti più difficili della sua carriera:
"Eppure c'era stata qualche avvisaglia di quello che sarebbe successo, ancora prima che si cominciasse a gravitare intorno all'Heysel. Giravano per la città delle macchine con altoparlanti, che invitavano gli appassionati ad andare per tempo allo stadio, anche se in possesso di biglietti regolari, perché girava una grande quantità di biglietti falsi. E infatti entrarono allo stadio molte più persone del dovuto, determinando un sovraffollamento nel settore in cui erano stati ammucchiati in maniera invereconda troppi tifosi inglesi. La situazione si fece critica quando gli hooligans debordarono verso il settore occupato dagli italiani, dai quali erano stati separati da una recinzione ridicola, quasi una rete da pollaio. L'impianto, del resto, era vecchio, fatiscente, con mura che davano davvero l'idea di poter crollare alla minima pressione. Tutti fattori che le autorità belghe avevano clamorosamente sottovalutato"

Tra le tante immagini di quella sera, fece scalpore l'indolenza dei gendarmi a cavallo.
"Le poche forze dell'ordine a disposizione, compresi i signori a cavallo, non presero alcun tipo di iniziativa. Osservavano quasi stupiti quello che stava accadendo, senza accennare a un minimo intervento. Forse non avrebbero risolto nulla, dal momento che non era stato predisposto un apparato per contrastare situazioni come quella che si stava creando, ma almeno avrebbero dato la sensazione di provare a mettere un po' d'ordine. Ma anche negli anni successivi in Belgio hanno cercato in tutti i modi di rimuovere quella serata, parlandone il meno possibile e mostrandosi riluttanti ad ogni commemorazione, perché a distanza di anni si rendono conto di avere fatto una figuraccia"

Dalla sua postazione che informazioni aveva? Che cosa sapeva di quello che stava accadendo?
"Niente, nulla di più di quello che riuscivo a vedere. Il crollo del muraglione sulla curva Z, ovvero l'evento che causò tutte le vittime, avvenne più o meno alla stessa altezza della tribuna centrale che ospitava le nostre postazioni di telecronisti. Sentimmo il tonfo, vedemmo la gente sciamare all'interno del campo di gioco, ma le notizie che ci arrivavano erano centellinate, contraddittorie e prive di qualsiasi certezza. A lungo nessuno parlò di morti, poi si seppe che c'era qualche ferito, anche se le immagini che fluivano lasciavano presupporre un bilancio più grave. D'altra parte, io ero lì, da solo, appeso al microfono, e non potevo andare a sincerarmi di persona. E non è che i colleghi della carta stampata, dalla tribuna, fossero in condizioni migliori delle mie".

Le difficoltà non saranno state solo di natura professionale. Avrà vissuto, immagino, un conflitto tra l'uomo e il professionista, che deve raccontare ciò che vede ricacciando in gola la rabbia.
"Furono momenti angosciosi, in cui fui costretto a prendere decisioni dolorose. Ricordo un paio di ragazzi, che erano riusciti a raggiungere la mia postazione. Mi chiesero di dire alle loro mamme che erano vivi. Io risposi che non potevo accontentarli, per non far preoccupare le mamme e i parenti degli altri ragazzi presenti allo stadio, anche se mi rendevo conto che ai loro occhi avrei potuto fare la figura di uno senza cuore. E invece, con mia soddisfazione, qualche tempo dopo mi chiamarono per dirmi che avevano capito le ragioni della mia decisione. In casi del genere ti trovi ad affrontare dilemmi tremendi, perché la realtà da raccontare è assolutamente fuori dai normali parametri della cronaca"

E nel frattempo che indicazioni le arrivavano dalla redazione di Roma?
"Ad un certo momento mi dissero anche: non esagerare coi morti. Io non sapevo nemmeno che ci fossero dei morti, anzi fino al termine della partita nessuno ne ebbe la certezza, per quanto con i telecronisti vicini cercassimo di scambiarci le poche informazioni che avevamo. Eravamo convinti che non si sarebbe dovuto giocare, e neanche i giocatori, come poi venimmo a sapere, erano propensi a scendere in campo. Ma le autorità belghe chiesero alle squadre di giocare, per organizzare per tempo e con un minimo di ordine il successivo deflusso dallo stadio. E lì ebbi un altro dubbio: per un po' pensai di non commentare quella partita, ma poi lo feci,  ripromettendomi di essere il più asettico e impersonale possibile"

I giocatori non erano propensi, ma poi esultarono...
"All'inizio l'impegno era molto annacquato, non c'erano contrasti, poi prevalse quasi un'abitudine all'agonismo, essendo lì in campo. Su quell'esultanza esagerata si polemizza ancora oggi e qualcuno sostiene che anch'io non censurai in maniera netta i festeggiamenti dei giocatori della Juve. Ma una volta che sei lì il coinvolgimento finisce per essere inevitabile, anche se oggi alcuni di loro si rifiutano di rievocare quella serata. è difficilissimo gestire situazioni di questo tipo. Sicuramente non ha senso pretendere che la Juve non si fregi di quella coppa"

Il calcio continua a proporre episodi sconcertanti. A Roma, dopo il derby, si tirano sospiri di sollievo perché non c'è scappato il morto.
"Che ci si consoli per questa ragione è veramente imbarazzante e denota quasi la convinzione che sia impossibile evitare che per una partita di pallone si mobilitino le forze dell'ordine. E se nella Capitale del Paese si può giocare solo alla luce del sole, nel resto dell'Italia sono troppe le partite etichettate come pericolose. Non tutti gli episodi di violenza sono strettamente collegati al mondo del tifo calcistico, perché ci sono chiare ingerenze di mestatori di professione, ma è evidente che il mondo del calcio non riesce a produrre dentro di sé gli anticorpi per rendere la situazione un po' più accettabile. E la gente si sta stancando, come dimostra la progressiva desertificazione dei nostri stadi. Tutte le componenti devono darsi da fare, ma non è facile, quando gli stessi rappresentanti del nostro calcio ogni volta che aprono bocca rischiano di combinare guai. Non sarebbe male, per esempio, se comprendessimo tutti che il tifo non può essere, come accade da noi, soprattutto un tifo contro. Il tifo deve essere espressione gioiosa di appoggio ai propri colori ma al tempo stesso di rispetto e tolleranza verso gli altri. A me dispiace sottolineare che anche adesso che siamo alla vigilia di un'altra finale europea con la Juventus protagonista, metà degli italiani non si dispiacerebbe se i bianconeri dovessero perdere. Questo non è bello, francamente"

Ad ogni episodio di violenza si invocano misure drastiche, citando l'esempio inglese del dopo-Heysel. Lei è d'accordo?
"Facciamo spesso riferimento agli inglesi, senza considerare che non hanno educato gli hooligans: li hanno spaventati. Là chi commette qualcosa di illecito viene immediatamente fermato, anche durante la partita, e paga severe conseguenze di carattere penale. Ma appena vanno all'estero, dove sanno che bene o male la faranno franca, si comportano sempre male. Occorre la certezza della pena, senza nuove regole ma applicando quelle che già ci sono. Però ci vuole serietà anche da parte di chi dirige il calcio. Se l'Uefa premia l'Olanda, i cui tifosi hanno distrutto Roma, è chiaro che ci stanno prendendo in giro".

Valerio Rosa


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