"Cristiano Ronaldo in cassa integrazione... o ferie"

Diritti e doveri di club e giocatori. Ecco la proposta dell'avvocato giuslavorista Marcello De Luca Tamajo: "Senza prestazione non c'è emolumento"
"Cristiano Ronaldo in cassa integrazione... o ferie"© EPA
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Io gioco, tu paghi. Detto così, semplifica abbastanza. Nel linguaggio del diritto si chiama “principio di sinallagmaticità del rapporto” e vale anche per il pallone. Ognuna delle due parti (calciatore e società) assume l'obbligazione di eseguire una prestazione in favore dell’altro. Ma se non gioco – e neppure mi alleno – a causa di un virus che sta mettendo in ginocchio il mondo, cosa succede? Lo abbiamo chiesto a Marcello De Luca Tamajo, avvocato giuslavorista, esperto di diritto sportivo e di diritto del lavoro, in passato consulente per Figc e CONI. «In caso di mancata prestazione non c’è controprestazione» dice lui.

Quindi i presidenti potrebbero non pagare gli stipendi?
«Ci troviamo di fronte a un’ipotesi di impossibilità temporanea della prestazione. Ci aiuta un articolo del codice, il 1256: se l’impossibilità è temporanea, il debitore della prestazione (il calciatore) non è responsabile dell’inadempimento. Però, a sua volta, la società non è tenuta a retribuire. Il calciatore non offre la prestazione, la società non off re la controprestazione, ossia il pagamento».

Crede che succederà proprio questo?
«Non lo escludo. Certamente si tratta di una situazione del tutto inedita e mai verificata, di una materia oggetto di ulteriore studio anche in base ai provvedimenti di queste ore del governo e delle autorità sportive. In fondo non è mai capitato a nessuno di chiudersi in casa per colpa di un virus. È tutto molto fluido, difficile e nuovo. Perché no, potrebbe pure succedere che un calciatore non prenda lo stipendio in relazione al solo periodo per il quale non effettua alcuna prestazione».

I calciatori diranno «perché dovremmo rimetterci noi»?
«Ponga il caso che il Coronavirus vada avanti per un anno. Il calciatore sta a casa e il datore di lavoro paga per un anno? Non è possibile. In questa situazione è legittimo che il lavoratore non vada a lavorare, infatti non è passibile di alcun tipo di provvedimento, ma sarebbe legittimo anche che il datore di lavoro applichi una riduzione della retribuzione».

Altra questione: le società possono obbligare gli atleti ad allenarsi?
«Teoricamente potrebbero convocarli, siccome esiste per tutti la possibilità di recarsi sul posto di lavoro. Ma bisognerebbe garantire loro tutta una serie di misure come le mascherine, la bonificazione degli spogliatoi, la distanza di un metro, i controlli all’ingresso per misurare la temperatura. Impossibile nel mondo del calcio, anche per una questione insita al gioco stesso. È un gioco di contatti, come fanno gli atleti a tenere le distanze? Attenzione perché si andrebbe a violare l’articolo 2087 del codice civile che prevede la tutela dell’integrità fisica del lavoratore».

Che consiglio darebbe alle società?
«Probabilmente di mettere in ferie i dipendenti. Possono farlo. Esiste un protocollo d’intesa tra Governo e sindacati del 14 marzo che prevede l’applicazione degli ammortizzatori sociali, quindi una cassa integrazione, o laddove non fossero possibili tali ammortizzatori il datore può concedere le ferie al lavoratore».

Fa quasi sorridere: una cassa integrazione per Cristiano Ronaldo.
«Infatti la cassa integrazione in un rapporto di lavoro sportivo con retribuzioni così alte non credo sia applicabile»

L’ipotesi ferie è più praticabile?
«Decisamente sì, anche se ai giocatori non piacerà. Nell’accordo collettivo è previsto un periodo di ferie di 4 settimane ogni anno e che sia la società a decidere il godimento di tale periodo secondo le esigenze dell’attività agonistica».

Fermarli per un mese. E poi?
«Riprendere fra 4 settimane e giocare anche a luglio ove fosse necessario in base alle decisioni che prenderanno Federazioni e Uefa per completare campionati e competizioni europee».


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