Il momento in cui la Juve ha smesso di comandare

Il momento in cui la Juve ha smesso di comandare© ANSA
Alessandro Barbano
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Più della stessa crisi di risultati, ciò che fa il Natale della Juve più cupo è la difficoltà di capire che cosa stia accadendo dentro di sé. L’immagine che racconta questo disagio è quella del volto rabbuiato di Nedved che lascia il campo dopo un contrasto in area tra Bernardeschi e Dragowski, giudicato regolare dall’arbitro La Penna. Vedersi negare un rigore, forse plausibile, è difficile da accettare per chi non è abituato a subire torti arbitrali in Italia. Ma la stizza del vicepresidente contiene forse un disagio più ampio. La Juve inizia ad accorgersi di non essere più il sole di un sistema eliocentrico, non solo perché la maggioranza dei pianeti ha compreso che ruotarci attorno per dieci anni significherebbe far implodere l’intera galassia del calcio. Ma perché la luce di cui brilla è offuscata da nuvole che essa stessa ha prodotto, rinunciando a rinnovarsi.

C’è un punto di svolta in questa rinuncia, ed è collocato nell’annus horribilis della pandemia, tra l’assunzione e il licenziamento di Maurizio Sarri, il tecnico più originale e più innovativo del campionato italiano. Il suo arrivo dopo il lustro dell’inestetica egemonia di Allegri suggerisce la volontà del potere di mettersi in discussione, di dismettere i mille puntelli su cui poggia il suo castello di scudetti, per misurarsi a viso aperto con la qualità del gioco che fa il calcio più bello, costi quel che costi. Sarri poteva essere il tecnico in grado di cambiare la Juve. È accaduto il contrario: con il nono scudetto in tasca la Juve ha messo alla porta Sarri, dopo aver constatato che era impossibile cambiarlo. In mezzo a questo braccio di ferro ci stanno le due sostituzioni di Ronaldo, campione sciolto dalle regole dello spogliatoio, croce e delizia di una dipendenza che insieme dà e toglie.

Dal suo eremo di Castelfranco di sopra, Sarri ora guarda l’immutabile Juve che scivola su un piano inclinato a dieci punti dalla vetta della classifica. Ma che non risolve neanche una delle sue contraddizioni, perché ha rinunciato a comprendere la legge che regola la perseveranza di ogni successo oltre il suo tempo naturale, e che impone di liberarsi del potere per conservarlo. La Juve invece il suo potere se lo tiene ben stretto. Anzitutto sul mercato. Dove gioca d’anticipo, compra, opziona, promette, aggiusta, fino al punto di rischiare - come nel caso Suarez - di varcare la soglia del lecito. Non per una vocazione alla violazione delle regole, tutt’altro. Ma per una difficoltà a riconoscere il confine tra il desiderio e la realtà. Salvo poi accorgersi che, pagando più di quanto qualunque altra squadra può pagare, si ritrova nel sacco un mucchio di giocatori “normali”, non tutti ben assortiti, tanto da suggerire al nuovo tecnico, Andrea Pirlo, adattamenti di ruolo non sempre riusciti e rinunce clamorose. Come quella che lascia in panchina Dybala, preferendogli Bernardeschi e Kulusevski. L’argentino è un’altra di quelle variabili che faticano a trovare spazio nella rigida architettura bianconera. È troppo geniale per una squadra che un genio ce l’ha già, e non può permettersene un altro. Il rapporto tra la Juve e Dybala racconta per intero l’impasse gestionale in cui s’è cacciata una società che inizia a sentire la vittoria come una condanna. Agnelli sottolinea che il suo fantasista pretende lo stipendio dei primi cinque top player al mondo, pur non meritandolo ancora. Ma non gli offre nessuna concreta occasione per diventarlo. Non solo perché gioca poco, ma perché non è centrale agli schemi di una squadra che tende ad accentuare, anziché ridurre, la sua dipendenza da Ronaldo.

Il volto incredulo di Dybala, incorniciato dal bavero della tuta piumata, sta a quello irritato di Nedved che scompare nel tunnel: il primo non capisce perché non gioca mentre la Viola dilaga, il secondo non capisce che cosa stia cambiando attorno alla Juve. Perché fa fatica a chiedersi che cosa non è cambiato dentro la Juve.


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