Caso Juve, il processo al calcio italiano

Caso Juve, il processo al calcio italiano© ANSA
Alessandro Barbano
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Il bilancio a perdere dei tre anni di Ronaldo, le panchine bruciate e il declino sportivo dell’ultima stagione, gli esami truccati di Suarez, l’autogol della SuperLega e, da ultimo, le plusvalenze fittizie: ci sarebbe quanto basta per decretare senz’appello l’epilogo fallimentare di una gestione opaca e velleitaria. Però si fa un torto alla verità trasformando Andrea Agnelli e il suo cerchio magico nei capri espiatori di un sistema, secondo un paradigma che, da Tangentopoli in poi, è diventato per questo Paese un rito purificatore. Perché il processo alla Juve è il processo al calcio italiano, tutto intero, e a quella che può definirsi la sua «realtà aggiustata»: una modalità di regolare le transazioni secondo un codice dei furbi sostanzialmente condiviso da tutti. Tant’è vero che le plusvalenze sono state per anni considerate il rimedio per risanare i conti dei club. Si è chiuso un occhio, e talvolta due, su contratti sganciati da qualunque valore di mercato, preordinati unicamente ad attestare ricavi contabili, fino al punto di arrivare alle cosiddette operazioni a specchio, a somma zero tra le parti, ma capaci di gonfiare i bilanci in assenza di qualunque movimento finanziario. Nelle ultime tre stagioni in cui, secondo le stime della procura, la Juve avrebbe contabilizzato 280 milioni di introiti fittizi, il calcio italiano ha sviluppato qualcosa come due miliardi e mezzo di plusvalenze. Si può davvero pensare che solo quelle di Paratici e compagni fossero operazioni in frode al mercato?

La verità è che il giocattolo si è rotto quando il valore degli aggiustamenti non è riuscito a compensare il peso delle perdite e degli ammortamenti. Ma la giurisdizione domestica del calcio è stata per decenni uno spazio franco, dove le regole le fanno i più forti, e gli organi di controllo sono parte del sistema. Ci è voluta la Consob per portare alla luce quella che gli indagati di Torino raccontano con piena consapevolezza come «la merda che sta sotto e che non si può dire». Che una confidenza intercettata sia prova di una precisa responsabilità penale, oltre l’impatto della consueta gogna mediatica, non è scontato. Anzi, ci sia consentito di dubitarlo. Tuttavia queste parole raccontano il modo in cui la classe dirigente dei club, o almeno una sua gran parte, si percepisce: una comunità doppia, consapevole che una certa quota di falsità sia una ineludibile parte della propria attività di impresa.

La Juve finisce nel mirino perché, nella sua incontrollata ambizione, avrebbe utilizzato le plusvalenze non per risanare, ma per ridurre in parte i crescenti volumi di debito con cui costruiva la sua scommessa sportiva. Ma anche perché è quotata in Borsa, dove il generico falso in bilancio non è solo un artificio contabile ma una strategia dolosa in danno del mercato finanziario. Tuttavia, il resto del calcio italiano, i presidenti e direttori sportivi amici dei bianconeri e quelli rivali, la Lega e le istituzioni federali non s’illudano di poter guardare dall’esterno a ciò che la procura di Torino va accertando. Poiché le contraddizioni del sistema sono in un punto di non ritorno. Senza un mercato aperto, ma regolato e trasparente, la gogna, prima o poi, arriva per tutti.


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