Nella vicenda giudiziaria bianconera, le nuove perquisizioni della Guardia di Finanza non riguardano il filone d’indagine delle plusvalenze ma aprono un nuovo fronte delle ipotesi di falso in bilancio ed evasione fiscale contestate ai vertici bianconeri e alla stessa società. Occorre ricostruire la sequenza degli eventi. Il 28 marzo 2020, in pieno lockdown e coi campionati fermi, la Juve annunciava l’accordo coi tesserati per la rinuncia ai compensi degli ultimi quattro mesi (da marzo a giugno) della stagione 2019/20. «Gli effetti economici e finanziari derivanti dall’intesa raggiunta - recitava il comunicato - sono positivi per circa euro 90 milioni sull’esercizio 2019/20». L’accordo precisava che intese individuali sarebbero state perfezionate nelle settimane successive ma che qualora le competizioni sportive fossero riprese - è il nodo della vicenda - la società e i tesserati avrebbero negoziato «in buona fede» eventuali integrazioni dei compensi. Il senso del comunicato pare inequivocabile: i calciatori mettevano una pietra sopra gli stipendi. L’accordo non prevedeva la mera sospensione dei pagamenti perché, in tal caso, le parti non avrebbero dovuto rinegoziare “in buona fede” eventuali integrazioni. L’imponente risparmio di costi dichiarato al mercato avrebbe attenuato fortemente l’impatto della pandemia ma, nei fatti, quel risparmio non ci fu perché tre delle quattro mensilità furono poi pagate nel 2020/21.
Rinviate, secondo gli inquirenti, di comune accordo e senza alcuna condizione. Indipendentemente dalla ripresa della stagione. Se così fosse, la Juventus avrebbe dovuto contabilizzarne il costo nel conto economico 2019/20 e rappresentare il relativo debito verso i dipendenti nel bilancio. Di conseguenza, la perdita sarebbe peggiorata, da 90 ad almeno 160 milioni, mentre sarebbe migliorato il risultato 2020/21 che avrebbe invece esposto un “rosso” di 209 milioni. La cosa più strana è la gestione degli accordi: una serie di scritture private, in parte non depositate in Lega come prescrivono le norme federali. Soprattutto quelle che costituivano garanzie sui pagamenti incondizionati degli stipendi, smentendo bilanci e comunicati. Documenti che gli investigatori non hanno trovato nella sede bianconera ma che sarebbero stati affidati a legali e procuratori dei tesserati a tutela degli impegni, magari con l’accordo di distruggerli dopo il pagamento. Ecco perché le perquisizioni sono estese ai computer dei legali. Non è chiaro il perché di una manovra così ardita. Migliorare il bilancio, certo, ma a scapito del successivo. A meno che - come ipotizzano fonti giudiziarie - il club non intendesse replicare la manovra sulle ultime mensilità della stagione seguente. Nell’ipotesi di falso in bilancio, il punto cruciale è se gli accordi di integrazione furono stipulati prima o dopo il 30 giugno 2020. Nel primo caso avrebbero dovuto essere rappresentati in bilancio. Quali conseguenze possono scaturire da questa vicenda? L’inchiesta giudiziaria sui rilievi penali già contestati a dirigenti ed ex bianconeri uscirebbe senz’altro rafforzata se si provassero queste accuse. Il quadro sarebbe quello di bilanci fortemente edulcorati per presentare al mercato una situazione molto migliore di quella reale. Poi vi sarebbero ricadute per la giustizia sportiva: le norme federali (art. 94 Noif) vietano scritture private contenenti accordi economici, tra società e tesserati, diversi dai contratti depositati in Lega. Per le norme sportive non rileva la tempistica ma la prova che i tesserati furono pagati in deroga ai contratti, in base ad accordi segreti. Se la procura trasmetterà atti rilevanti agli organi federali, la Juve rischia il deferimento e i procedimenti disciplinari potrebbero estendersi agli stessi tesserati.