Il “ritornismo”, Allegri e lo spigolo di Bonucci

Il “ritornismo”, Allegri e lo spigolo di Bonucci© LAPRESSE
Roberto Beccantini
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Relegata nell’inferno dantesco dei traditori di pronostici. È il destino della Juventus in balìa delle voragini di cassa (meno 254 milioni) e dei pesci in faccia (da Benfica e Monza). Massimiliano Allegri è sotto schiaffo da quando tornò, due estati fa, errore suo e topica della società. Diffidare, sempre, di chi rifiuta il Real. Anche se in patria ha vinto, rivinto e stravinto. I corsi e ricorsi al lauto onorario, abbinati alla bassa classifica e al bassissimo gioco, hanno gonfiato e sospinto le critiche verso picchi di ignobile linciaggio.

Gli infortuni, d’accordo. Numerosi e imponenti. Ma se «lo sventurato rispose» (Angel Di Maria ad Armando Izzo, rosso diretto), l’infermeria c’entra poco. Ricorda, Max, il generale George Armstrong Custer al Little Bighorn: difficile non tifare per i Sioux di Lele Adani e Antonio Cassano, anche se mi piacerebbe vederli al comando del Settimo Cavalleria. Restano le spericolate tentazioni del «ritornismo», nascondiglio che per l’italiano medio rappresenta una sorta di gonna materna.

Giovanni Trapattoni, richiamato d’urgenza dall’Avvocato, non seppe ripetersi. Vi riuscì, invece, Marcello Lippi, precettato da una Triade che, fra ombre e penombre, non aveva digerito i secondi posti di Carletto Ancelotti. Al Milan, i bis di Arrigo Sacchi e Fabio Capello raccolsero bottini non certo all’altezza dei rispettivi, gloriosissimi, impatti. Per tacere di Luciano Spalletti a Roma e alla Roma, nel segno di Francesco Totti e di lune di miele diventate tramonti di fiele.

C’è un altro spigolo, nel dossier di Allegri. I rapporti con Leonardo Bonucci. Non necessariamente tempestosi, non obbligatoriamente paciosi. Bonucci è l’unico superstite della rosa che, agli ordini di Antonio Conte, introdusse l’epopea del Novennio. Ne saltò solo uno, di scudetti, per una scappatella al Diavolo. Ha 35 anni, è il capitano della Juventus e della Nazionale. La Lazio di Giorgione Chinaglia e Pino Wilson era un poligono di tiro e, dunque, figuriamoci se mi lascio impressionare dallo sgabello «punitivo» di Porto, dopo che, al culmine di Juventus-Palermo 4-1, allenatore e giocatore erano venuti (quasi) alle mani. Reperti archeologici del febbraio 2017.

Una cosa, però, non l’ho capita. Riguarda la «caccia» alla Salernitana. In piena e trafelata bagarre, Allegri esautorò Dusan Vlahovic e affidò proprio a Bonucci il rigore che in quel momento, sull’1-2, pesava tonnellate, salvo poi cancellarlo dalla formazione di Monza: per scelta? per turnover? Non è che in Champions, con i portoghesi, fosse stato uno dei peggiori. Anzi. Sono le montagne russe, e oscure, che solcano le crisi, rendendole schiave di troppe cause, dal bouquet delle quali si pesca spesso la margherita più comoda: la responsabilità del domatore. Il lancio con cui Bonucci ha smarcato Giacomo Raspadori, solleticandone la maestria tecnica (aggancio-controllo) e l’estro balistico (destro a giro), sembrava un avviso al navigante urlato dalla pancia di San Siro. Nelle burrasche serve «il» capo o almeno «un» capo. In caso contrario, punto e a capo.


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