Exor e Juve, quando il business è stress

La fotografia del momento della holding di John Elkann
Alessandro F. Giudice
4 min

Una volta mi capitò di incontrare Paul Singer. Gli chiesi se non ritenesse il calcio un buon business, a giudicare dalla ricca uscita del suo fondo dal Milan. «Yes but a stressful business» mi disse. Stressante perché puoi gestire decine di aziende in tanti settori senza clamore mediatico mentre nel calcio ogni fatterello diventa un caso. Ogni scelta o dichiarazione diviene motivo di discussioni, critiche, sospetti per una vastissima platea dove ognuno si ritiene titolato a commentare.

Forse gli stessi pensieri attraversano la mente di John Elkann, a capo di una holding con investimenti per 36 miliardi la cui gestione equivale in tutto a un fondo di private equity, ma finito sulle prime pagine per vicende extra-sportive di una squadra che pesa per appena l’1,5%. Perfino le telefonate private col cugino, penalmente irrilevanti, in pasto al pubblico per un malcostume assai diffuso in Italia. Chiaro che la Juve sia più di una partecipazione. È la squadra di famiglia, la passione del nonno a cui Elkann deve moltissimo. Nessuno più di lui avverte l’obbligo morale di non recidere l’ultimo legame con le proprie radici. Essendo Fiat diventata Stellantis dopo la fusione con i francesi di PSA (prima ancora con l’americana Chrysler) essendo al 22% la quota in Ferrari ed essendo Exor proiettata su palcoscenici più internazionali che domestici. Però bisogna mettere sul piatto la girandola di gossip non funzionale all’immagine della holding anche perché Juventus può diventare una piccola crepa: il caso spiacevole di una partecipata con profondi problemi gestionali e risultati non all’altezza del gruppo.

Dal 2010 al 2019, finché il titolo cresceva fino a moltiplicare il valore dell’azienda, dai 75 a 1700 milioni, vincendo pure scudetti in serie senza chiedere soldi agli azionisti (raro esempio di vittorie e sostenibilità) anche i freddi custodi della finanza accettavano il patto col diavolo del tifo. Juventus era un buon investimento, non solo la squadra di famiglia. Certo qualcuno poneva sempre il problema dell’uscita perché il valore di un’azienda resta teorico finché non si vende. Però la domanda “si venderà mai la Juve?” restava sullo sfondo mentre il titolo saliva e il club volteggiava nel firmamento del calcio europeo. L’aumento di capitale 2019 (300 milioni) fu ancora sulla spinta della crescita: investiamo per sostenere e rafforzare un business di successo. Invece quello del 2021 (400) servì a coprire una falla. Ora vengono al pettine i nodi di una gestione penalizzata dalla hybris, la superbia dei potenti, ma anche da errori indiscutibili che il Covid ha reso vistosi. C’è da ridimensionare, riequilibrare, razionalizzare. Portare in equilibrio i conti, dimostrare anche al mercato che il business può tornare sano. Ora può tornare utile la partnership con un fondo a cui cedere anche quote rilevanti importando competenze gestionali e spingendo i ricavi internazionali. Un RedBird del caso, insomma. Magari mantenendo la presenza della famiglia ai vertici e quella di Exor con una partecipazione ancora rilevante. Non sarebbe una novità assoluta: l’Avvocato lo fece coi libici, negli anni ’70, quando serviva rafforzare la Fiat. Poi in Juventus, molto più tardi, assecondando per convenienza la passione del colonnello. Ora ci vuole un partner diverso, più sofisticato dei libici perché non servono soldi ma programmi, disciplina gestionale, idee. Un ex dirigente bianconero mi ha detto che il salto nel buio degli investimenti eccessivi (Higuain, CR7 ecc.) fu deciso quando si capì che i ricavi non potevano crescere più dei 400-450 milioni e perché Torino non è Milano, tanto meno Londra o Parigi. Forse ora servirebbe qualcuno capace di portare la Juve su palcoscenici più internazionali, lavorare sui ricavi ma intanto, con la presenza di un player finanziario esterno, giustificare ai tifosi anche un netto cambio di strategia.


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