Caso Juve, la nostalgia del giudice silenzioso

Leggi il commento sul caso plusvalenze che ha coinvolto il club bianconero
Caso Juve, la nostalgia del giudice silenzioso
Roberto Beccantini
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Da questa Italia di santi dipinti si alza, profonda e lancinante, la nostalgia del giudice indipendente e, possibilmente, silenzioso. Attenzione: silenzioso, non omertoso. Pubblico ufficiale, non ufficiale in pubblico. Non è una contraddizione. Magistrati, ex magistrati in pensione: il caso Juventus, tra meno quindici e oltre, molto oltre, ne incarna il groviglio più attuale e lampante. In attesa che la giustizia faccia il suo corso, non si ricorda un corso più trafficato, più congestionato, più invaso. I giornali chiedono lumi. I lumi non aspettano altro. E così via. Pro o contro, non è questo il punto. Piero Sandulli, per esempio. È una toga che «ritorna» spesso nella storia piccante dei nostri tribunali. All’epoca di Calciopoli presiedeva la Corte d’appello federale. Capitatogli fra i piedi Franco Carraro, presidente dimissionario della Figc, ne ridusse l’inibizione di quattro anni e sei mesi a un’ammenda di 80 mila euro con diffida (poi cancellate). Tanto che, nel giro, diventò «San Dulli». Il 13 febbraio si è autosospeso dalla carica di vicepresidente della seconda sezione del Collegio di garanzia per aver parlato di Consob, plusvalenze e Juventus (che comunque non avrebbe trattato). I motivi? «Lo scoprirete, ho paura». È vero che, in generale, siamo così servili - o, al massimo, servizievoli - che a stare zitti si passa per complici, ma un «arbitro», insomma.

L'uomo chiamato cavillo

Ecco allora che dalla memoria emerge la figura dell’avvocato Alberto Barbè, radici novaresi, scomparso nel 2002 all’età di 77 anni, dopo essere stato per ben 27, dal 1961 al 1988, giudice sportivo unico. Non commentava: comminava. L’uomo chiamato cavillo: dava sempre la mano, mai una dritta. A meno che non si fosse ferrati nel tariffario dei «delitti e delle pene», perché, in tal caso, ci si arrivava da soli. Fu anche presidente della Commissione disciplinare dell’Uefa. Figlio del suo tempo, non credo che il web lo avrebbe sedotto se non, addirittura, traviato. Ne serbo un aneddoto antico ma nitido. Era la stagione 1983-’84. Per i sedicesimi di Coppa Uefa si affrontavano Inter e Groningen. Primo round in Olanda, 2-0. Sul neutro di Bari, data la squalifica di San Siro, rimontona: 5-1. Saltarono fuori strane voci di combine, legate a un procuratore batavo, Apollonius Konijnenburg, che avrebbe offerto fior di fiorini per ammorbidire i connazionali. L’Uefa avocò a sé il dossier, sospettosa. Il vertice era in programma a Zurigo, il 10 novembre dell’83. Un pugno di cronisti, quorum ero, bivaccava nell’hotel del Gran Consiglio. L’ora x si avvicinava. D’improvviso, la sala del conclave si svuotò. I membri si dileguarono. Toccò a me salire al piano di Barbè e bussare alla sua porta. Aprì. Avvocato, cosa avete deciso? Mi fissò. Non fiatò. Qualcosa però fece, o gli scappò: un gesto con il braccio. Come dire, senza dirlo: avanti. L’Uefa, in effetti, andò avanti ma poi tornò indietro e scagionò l’Inter. Eduardo Galeano invitava a usare «soltanto le parole che possono migliorare il silenzio». E non è che non ce ne abbia lasciate.


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