L’Onnimottenza e l’abbaglio del vice Vlahovic che non c’è

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Juve eliminata dalla Supercoppa: le ironie social su Thiago Motta sono spietate
Roberto Beccantini
4 min

Un passo indietro, per favore. Se Milan-Juventus 0-0 di campionato fu un armistizio sordo e grigio, Juventus-Milan 1-2 di Supercoppa è stata una serenata ai paradossi che lo sport nasconde nelle sue bisacce ambigue, piene di tutto e di nulla. Dove si può censurare un «capo» per aver tolto, al minuto 65, uno dei peggiori in campo se non nel calcio, gioco a squadre fondato sui singoli e sulle stramberie dei precettori?

Si può e, nel caso specifico, si deve. Alludo a Thiago Motta e all’uscita di Dusan Vlahovic, il cui dosaggio, a 24 anni, continua a rappresentare un doppio problema: quando gioca, perché spesso non ne tiene una; e quando non gioca, perché non ha sostituti di ruolo (Nico Gonzalez non lo è) e la squadra perde profondità, si accartoccia, in bilico tra un palleggio sempre più orizzontale e avversari sempre meno pavidi. Ecco: qui si valica il crinale della famosa e famigerata questione del «chi conta di più». Contano più i giocatori, fidatevi di Carlo Ancelotti, tanto che non metterò mai sullo stesso piano l’ingenuità di Manuel Locatelli sul rigore e la paperissima di Federico Gatti e Michele Di Gregorio con la staffetta che, tornando al matrimonio di Don Abbondio, «non s’aveva da fare». Dal cuore dell’indagine affiora l’errore, clamoroso, di Cristiano Giuntoli. E di Thiago, se mai lo avesse avallato. Con la lungodegenza di Arkadiusz Milik (c’era una volta), di nove «veri» non rimane che lui, l’ex Viola: o splendidi squilli tipo Lipsia o sponde sbirole tipo Riyad. Lui e basta. Nonostante la Champions. Ebbene, senza Europa, il terzo e ultimo capitolo dell’Allegri bis (2023-2024) coinvolse il serbo più Moise Kean più un Milik capace di firmare reti cruciali nel derby e con la Lazio, all’Olimpico, nella seconda semifinale di Coppa Italia.

Quando si dà la precedenza al tecnico e alle sue lavagne, le conseguenze possono essere «anche» queste. Ferma restando la follia dello stipendio a «salire» - da 7 a 12 milioni - che il delirio di onnipotenza concesse alla scoperta di Pantaleo Corvino. Era il gennaio del 2022. Fuggito Cierre, urgeva un bomber. Così come, tra le bancarelle del mercato scorso, mi intrigava la stoffa di Teun Koopmeiners, prima che diventasse «Flopmeiners», mentre ignoravo che Douglas Luiz potesse valere 50 milioni.

Infiamma i loggioni il mistero del «centravanti assassinato verso agosto», per parafrasare la penna e il genio di Manuel Vázquez Montalbán. Un abbaglio incredibile, al netto delle esigenze e delle emergenze di bilancio, dal momento che stiamo parlando di Madama, di un signor manager e di un signor mister. Per Arrigo Sacchi, il leader era il «giuoco»: con fior di olandesi, però, e la ditta Franco Baresi-Paolo Maldini a poppa. Si sapeva che Vlahovic non sarebbe stato Joshua Zirkzee. Si sapeva pure che il pilota può fino a un certo punto. Non oltre. Oltre, tocca alla qualità e alle alternative della rosa. Onde evitare che persino una mossa concettualmente corretta - escludere, ripeto, uno dei più scadenti - si trasformi in un harakiri. E il harakiri in uno spasmo di «Onnimottenza» (non è mia, ma rende l’idea).


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