Juve, la sentenza non sia una vendetta

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Juve, la sentenza non sia una vendetta© ANSA
Alessandro Barbano
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La sentenza che stasera, a poche ore dalla gara di Empoli, butterà la Juventus fuori dalle Coppe rischia di mostrare una volta di più il volto irrazionale della giustizia sportiva. Non solo per la tempistica che, a tre turni dal termine, pare a orologeria, e che, nonostante risponda al principio di effettività sancito dal codice di giustizia sportiva, sarebbe stato più logico differire alla fine del campionato. Ma per il fatto che la sua misura porta con sé due contraddizioni irresolubili. La prima riguarda gli effetti: per essere afflittiva, come prescrive lo stesso codice, la pena non può essere prevedibile, contraddicendo in tal modo uno dei principi cardine di qualunque credibile sistema sanzionatorio. La prevedibilità imporrebbe che chi commette un illecito sappia preventivamente a che cosa va incontro. Mentre in questo caso la misura della pena non è determinabile a priori, rispondendo alla necessità di cagionare un danno effettivo alla Juventus. Da qui l’esito, a cui sembra doversi giungere, dei dodici punti, necessari a negarle la qualificazione in Champions, quand’anche riuscisse a battere il Milan nel confronto diretto del prossimo turno. Quella che va configurandosi è una sentenza sartoriale, cioè cucita sulla classifica attuale della squadra da punire. Ma quando un effetto avverso di un provvedimento dell’autorità non è prevedibile, il sistema che lo irroga non è affidabile. Con l’effetto di far crollare la fiducia di tutti coloro che vi hanno aderito.

La seconda contraddizione è una conseguenza della prima: dovendo rispondere alla necessità di cagionare un danno alla Juve, la misura della sanzione non è neanche in rapporto con la gravità dell’illecito. La mancanza di prevedibilità è, prima ancora, mancanza di proporzione. Nel senso che lo stesso illecito potrebbe comportare domani per un’altra squadra una sanzione inferiore, o piuttosto maggiore, di quella inferta oggi alla Juve. Il che contraddice anche un principio a cui pure sembra ispirarsi la giustizia sportiva: la cosiddetta retribuzione, per cui la pena deve essere commisurata all’entità della violazione commessa.

La violazione della prevedibilità e della proporzione della pena ha, come conseguenza, la negazione del merito sportivo. Se viceversa i nove-dodici-quindici punti di penalizzazione fossero comminati alla Juve all’inizio del prossimo campionato, la condanna avrebbe sì l’effetto di produrre un danno proporzionato e prevedibile, ma non le impedirebbe, in ragione del suo merito sportivo, di sostenerne e sfidarne il peso. Questa sarebbe una giustizia davvero equa, uguale per tutti e, perciò, credibile.

Chi scrive non nutre nessuna indulgenza nei confronti di chi falsifichi i bilanci o eluda i vincoli contabili previsti dall’ordinamento. Però quando il sistema repressivo è, nel merito e nel metodo, così incoerente, si autorizza qualcuno a pensare che valga la pena eluderlo con qualche sotterfugio. L’illecito è anche figlio di una mancanza di logicità e trasparenza delle regole. E le regole della giustizia sportiva si portano addosso questo difetto d’origine.

Si aggiunga che l’istruttoria ha accompagnato come un supplizio aggiuntivo la stagione bianconera, condizionando la serenità dello spogliatoio e, quindi, le prestazioni in campo. Lo sa bene Max Allegri. Da quando ha portato sulle spalle la croce di un’incriminazione che tutti riguardava, tranne che lui. E ora quel peso grava anche sulla qualità del rapporto con la squadra e sul suo futuro. L’impatto della giustizia non è mai inoffensivo, ma in questo caso ha plasticamente dimostrato quanto il processo, qualunque processo, sia una pena per chi lo subisce, a prescindere dalla sua colpevolezza o innocenza. La sentenza non sia una vendetta.


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