Fra l'Udinese e il Bruges, c'è di mezzo Fonseca. Nel senso che, aspettando i belgi, l'allenatore brilla più che mai sulla copertina rossonera, dopo la vittoria sui friulani, tanto sofferta quanto fortemente voluta dalla squadra, pur ridotta in dieci contro undici dal minuto 29 per l'espulsione di Reijnders. Una squadra che Fonseca ha rimesso in riga, mettendo fuori Leao e Tomori, rilanciando Okafor e Chukwueze che, fra l'altro, non segnava da sette mesi e ha firmato il suo gol più prezioso da quando indossa la maglia rossonera. Un messaggio forte e chiaro anche per Theo Hernandez, in campionato assente per squalifica, in odore di rientro in Champions. Fonseca è un eccellente allenatore che, tuttavia, dall'inizio della sua avventura milanese, viene ingenerosamente criticato o superficialmente elogiato a seconda di ogni risultato ottenuto dalla sua formazione. Come se non avesse il diritto di essere giudicato alla fine della stagione e non all'inizio. Sino al derby, seguito dal successo sul Lecce, il signore portoghese veniva considerato inadatto a guidare il Milan, dove "inadatto" è un eufemismo. Poi infrange il tabù delle sei vittorie consecutive interiste, a seguire i suoi segnano 3 gol in 5 minuti al Lecce ed è un fenomeno. Perde in Champions, va ko a Firenze e ricomincia daccapo. Alla buon'ora, Fonseca è portoghese, ma conosce bene l'inglese: the gloves are off. Quattro parole che possono essere pragmaticamente tradotte: la sfida è aperta, il gioco si fa duro, le cose si fanno serie. Così, alla vigilia dell'Udinese, l'allenatore gentile ha ringhiato, anche ricorrendo a un linguaggio inusuale per il suo lessico: "La mia leadership non è da far vedere fuori da Milanello, io non sono un attore. Se abbiamo qualche problema, non me ne frega un cazzo del nome del giocatore. Io ci parlo. Frontalmente, direttamente, con la squadra o con i giocatori". Detto, fatto. Vai così, Paulo.