Allegri ha zittito tutti: ora la prima volta da ex contro la Juve

Criticato per il ko con la Cremonese, poi con 4 vittorie di fila ha portato il Milan in testa. Suo l’ultimo trofeo bianconero nella notte del senza giacca al grido di "dov’è Rocchi?"
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Tornerà da pacificato. Ed è la sua più grande vittoria. Perché Massimiliano Allegri è stato a lungo considerato l’allenatore più divisivo della storia juventina, probabilmente non solo della storia recente. Vittima di una vera e propria campagna mediatica, è stato bistrattato, denigrato, trattato quasi alla stregua di un incompetente. E infine allontanato a furor di popolo, oltre che di hashtag. L’impressione è che sia passato un secolo, invece non era neanche un anno e mezzo fa. Il suo addio fu considerato la fine di un’era. La resa dell’ancien regime calcistico, con la Juventus che per la seconda volta in pochi anni ha abbracciato la rivoluzione del pallone. Il nuovo che finalmente prendeva il sopravvento. La prima fu con Maurizio Sarri (che almeno vinse lo scudetto) e la seconda con Thiago Motta. 

Domenica sera, Allegri tornerà allo Stadium da pacificato probabilmente anche per i modi in cui avvenne quell’addio. La sera dell’ultimo trofeo bianconero. La Coppa Italia vinta contro l’Atalanta di Gasperini che da lì a qualche giorno avrebbe sommerso di reti il Leverkusen di Xabi Alonso e conquistato una storica Europa League. Allegri diede di matto, diciamo per semplificare. In realtà, col senno di poi, non sarebbe potuto essere più lucido. Quella serata è rimasta impressa nei cuori e nelle menti di tanti tifosi bianconeri. Uno show in due atti. Il primo contro l’arbitro, col consueto rito della giacca e dello spogliarello, e il celebre grido «dov’è Rocchi?» diventato un must per gli juventini. E poi, soprattutto, il secondo. L’attacco pubblico a Giuntoli, il suo grande nemico, l’uomo che lo ostracizzò e lo mise sempre più in un cantuccio. Mesi dopo, col fallimento di Thiago Motta bello che compiuto, e i non pochi danni combinati da Giuntoli, quell’esibizione senza freni è stata rivista e giudicata per quello che effettivamente fu: un atto d’amore nei confronti della sua Juventus. Il disperato tentativo di salvare la squadra da un destino che invece era scritto e che venne accolto dal popolo come una liberazione.  

Il tempo non solo è galantuomo ma aiuta a osservare con più distacco gli eventi. Il furore del nuovismo, nel frattempo, si è molto raffreddato. E domenica allo Stadium torna l’uomo che ha vinto cinque scudetti di fila. Che ha giocato due finali di Champions. Che ha alzato l’ultimo trofeo. Che ha difeso e tenuto su la baracca mentre tutt’attorno stava andando a rotoli – a cominciare dalla presidenza Andrea Agnelli – sotto i colpi del processo plusvalenze. Torna l’uomo che ha sempre difeso l’orgoglio bianconero. Dettaglio tutt’altro che irrilevante per una tifoseria che considera l’attuale presidenza poco in sintonia con la base. 

Allegri torna a Torino, nella sua Torino, per la prima volta da ex. Non ha mai affrontato la Juventus da quando ha lasciato la Juventus. Calcisticamente, Max è un fedele. Checché se ne dica della sua vita privata e di quel giorno in cui decise di non presentarsi all’altare. Ad alto livello, ha avuto solo due squadre. Il Milan e la Juventus. Berlusconi e Agnelli. Gli hanno insegnato a stare al mondo. A stare a tavola. Persino a tacere, a rinunciare alla battuta. Lui livornese dalla lingua tagliente. E a Milano, in questa sua seconda vita rossonera, ha impiegato poche settimane per rimettere in piedi quella che sembrava un’armata brancaleone. In una società in cui a prua tirano a sinistra e a poppa a destra. E che, diciamo, non gli ha allestito una rosa che tremare il mondo fa. Ma Allegri è uno che ha imparato a cucinare con quel che ha. Se c’è Ronaldo, tanto meglio. Ma non ci si lamenta. Mai. Lo definiscono aziendalista, come se fosse un insulto. Ha l’intelligenza di sapere che se viene pagato tanto, è per risolverli i problemi non certo per crearli.  

Ha cominciato perdendo in casa con la Cremonese e si è ritrovato i fucili della critica spianati. Ordinaria amministrazione. In un mese e mezzo, ha portato il Milan in testa alla classifica. Ha affidato le chiavi del centrocampo a Modric e al suo figlioccio Rabiot. Ha liberato la creatività di Pulisic. E s’è tenuto stretto Saelemaekers che un fuoriclasse non è ma è uno di quei calciatori che gli allenatori bravi non lascerebbero mai partire. Per vincere, non basta. Immaginiamo che lo sappia. Per provare a dare fastidio, gli manca l’operazione più complessa: il pieno recupero all’agonismo di Rafa Leao. Dovesse riuscire nell’impresa, entreremmo nel metafisico.  

Per domenica sera i fotografi sperano nel remake del 1986 quando in Juventus-Inter il neo-interista Trapattoni sbagliò panchina e si diresse verso quella bianconera che fu la sua casa per tanti anni. Nessuno si meraviglierebbe se la scena dovesse ripetersi. Così come nessuno si meraviglierebbe se – com’è ampiamente probabile – Allegri dovesse essere accolto allo Stadium con un lungo applauso. Il tempo della rottamazione è passato di moda. E come spesso accade, i rottamatori sono finiti rottamati.  


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