Napoli, la trincea di Rino Gattuso

Napoli, la trincea di Rino Gattuso© ANSA
Alessandro Barbano
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Vale almeno tre volte, per il Napoli, la finale di Coppa Italia. Una perché l’Inter è l’Inter, e l’insofferenza di Conte la fa insaziabile, ancorché lascia il San Paolo con un’arsura pestilenziale in bocca. Una perché il Napoli può riacciuffare una stagione che sembrava aver gettato alle ortiche, spinose come le polemiche distruttive dell’autunno caldo di Castel Volturno. Una perché la luce del calcio risveglia la città dalla grande paura, che solo paura è stata, perché il Covid qui è arrivato di striscio, ma è costato tanto, come una gabella sulla libertà imposta dal Nord, e perciò indigeribile.

Il grido di Ciro Mertens squarcia l’ultima corteccia del lockdown, cementata dal governatore De Luca con un rigore e un’ironia che ne hanno fatto una star, perché solo con l’ironia da queste parti si può imporre il rigore. L’assist di Ospina-Insigne è la fantasia che va al potere, contagiosa come una febbre buona, che trasmette l’astuzia dalle mani del portiere colombiano al piede spietato del più prolifico cannoniere della storia azzurra. L’abbraccio successivo tra il belga e il capitano suona come una mascherina gettata in un cassonetto, con una settimana d’anticipo rispetto alla volontà della legge. Così Napoli si risveglia dal torpore della clausura con tutti i suoi storici mali sulle spalle, ma con l’analgesico di un sogno ritrovato. La finale di Coppa Italia contro la Juve è una rivincita sulla storia e uno strapuntino per restare nel calcio che può ancora comprare, illudere e, magari, vincere.

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Gattuso ha fatto del San Paolo un fortino inespugnabile, dove il catenaccio, prima che una tattica, è un codice antropologico. Può piacere o no, e forse non piace a chi da queste parti ha ancora nella mente Sarri, però ha funzionato prima della sospensione del calcio, e funziona allo stesso modo alla ripresa. È come se la linea difensiva di Rino, nei tre mesi di sosta, avesse ripetuto la lezione via Zoom, fino a mandarla a memoria.

L’altra faccia della partitissima è quella di Conte, un libro aperto sulla rabbia e sulla tristezza per una stagione deludente, e per un futuro altrettanto incerto. Non basta l’agonismo vissuto come una fede a ricucire una geometria di gioco costantemente incompiuta. L’Inter paga aspettative esagerate e anche una certa indeterminatezza tattica.

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Il silenzio del tecnico nei tre mesi di stop tradiva una sua segreta insofferenza. Se Conte avesse potuto, avrebbe riavvolto il nastro del campionato all’indietro, regalandosi un altro inizio. Ci hanno provato i suoi dirigenti, con una melina contro la ripartenza che, al confronto, il catenaccio di Gattuso era burro. Ma gli è andata male, perché le buone ragioni del calcio sono state più forti della paura e della convenienza. Che la paura del tecnico leccese fosse fondata lo dimostra, però, la gara di ieri al San Paolo. La sua Inter è come un aereo potente con un carrello rotto: l’atterraggio è un’emergenza permanente.

Il Napoli corre, l’Inter annaspa: se il campionato riprende da dove si era fermato, vuol dire che questi tre mesi sono stati solo un brutto sogno. E se stropicciamo le mani sugli occhi, chissà, presto vedremo sugli spalti anche i tifosi.


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