Lo scudetto è un fantasma che da sempre accende e inquieta i sogni del Napoli. Appare e svanisce come un’illusione. Spalletti fa bene a fare professione di verità, quando dice «non possiamo più tirarci indietro». Pur sapendo che ogni qualvolta gli azzurri hanno imboccato l’ultimo miglio, sono franati rovinosamente. Ma non è con l’ipocrisia che si salta l’ostacolo. A sette giornate dalla fine, il Napoli è la squadra che ha più numeri, più condizione, più equilibrio tattico. Se finalmente potesse contare su quel carattere che fi n qui è mancato nei momenti cruciali, la volata vincente sarebbe alla sua portata. Ci sono nella fiducia del tecnico toscano diversi punti fermi. Il primo e più rilevante si chiama Lobotka. Il regista slovacco è per Spalletti ciò che Brozovic è per Inzaghi. Ubiquo, smarcante, direttivo e, più di tutto, umile, pronto al sacrificio anche senza la palla. Un giocatore come lui la Juve, orfana del miglior Pjanic, lo cerca ormai da un triennio, senza trovarlo. La sua capacità di uscire dall’assedio del pressing avversario, invertendo la direzione di corsa, è un’abilità unica nell’attuale serie A. Lobotka ha giocato solo diciotto delle trentuno partite disputate dal Napoli in questa stagione, e non tutte per intero. Ma nel finale la sua presenza potrebbe rivelarsi l’elemento in più. Il secondo punto fermo è la recuperata condizione atletica di tutto il gruppo e la crescita qualitativa di alcuni rincalzi, che offre a Spalletti diverse varianti tattiche.
Zanoli ieri ha surrogato Di Lorenzo in maniera esemplare, propiziando con una sgroppata prepotente e con un assist intuitivo l’astuto rigore ottenuto da Mertens. E Mario Rui sull’altra fascia ha dominato senza soluzione di continuità, dimostrando che, quando il fisico lo accompagna, la sua tecnica fa la differenza. Spalletti è riuscito nel miracolo di valorizzare giocatori misconosciuti o fi no a ieri altalenanti, come, oltre a Lobotka, Ounas e Juan Jesus, e di portare a maturazione talenti ancora incompiuti, come Elmas, divenuto un jolly di rara duttilità tattica. Ma soprattutto ha integrato le diverse anime dello spogliatoio, riuscendo a dare a tutti uno spicchio di protagonismo, anche sotto la spinta degli infortuni e delle assenze per la Coppa d’Africa. L’effetto è stato quello di costruire una comunità ugualmente motivata e intercambiabile. È questo il terzo e forse più importante fattore di fiducia. Per una serie di circostanze diverse, la gran parte degli azzurri questo scudetto lo vuole come un traguardo personale. Vuoi perché l’ha più volte mancato, vuoi perché la stagione che sta per chiudersi compie un ciclo. Giocatori come Koulibaly, Mertens, Zielinski, che hanno consacrato alla maglia azzurra la loro carriera, sanno che un’occasione così potrebbe non ripresentarsi a breve. Lo stesso Insigne ha più che un motivo per chiudere con il massimo trofeo nazionale il suo decennio napoletano.
La coesione di tante e decisive volontà individuali attorno a uno stesso obiettivo potrebbe compiere il miracolo di fare il carattere che decide nel rush finale. La contendibilità del tricolore certifica con la classifica che non esiste una formazione dominante, come effetto di una campagna acquisti incompiuta per tutte le big. Le sette gare che restano, otto per l’Inter e il Milan, sono un campionato a tre. Vince chi sbaglia di meno. Il Napoli che torna, almeno per una notte in testa alla classifica, a Bergamo ha tirato sei volte, in cinque ha centrato lo specchio, segnando tre gol. Non ha giocato una partita brillante, ma ha dimostrato una concentrazione forse mai vista in questo campionato. Con Fiorentina e Roma, al Maradona, dovrà ripetersi. Senza che il fantasma dello scudetto ripeta il sortilegio che, come è già accaduto, lo paralizza a un passo dalla gloria.