Napoli, De Laurentiis e il coraggio delle idee

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Antonio Giordano
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Ora che Kvaratskhelia rappresenta la Nouvelle Vague del football 3.0, il Made in Naples diventa un modello che scandisce il mercato, lo riempie di sé, delle sue intuizioni, d’una logica che fa tendenza oramai da un bel po’, un ventennio circa, e lo indirizza inseguendo l’Idea. In fin dei conti, da Kvica a Kvernadze è un attimo, però dentro questa «moda» si nasconde una filosofia emersa silenziosamente sin nel 2004, nelle visionaria interpretazione di un sistema innovativo per quell’epoca, poi fragorosamente esplosa nel 2007 con Lavezzi, Hamsik e Gargano, rielaborata nel 2014 con Jorginho, Koulibaly e Ghoulam, rinfrescata periodicamente con Zielinski e con Milik, con Meret e con Fabian, e appena esaltata dalla capacità di andare a scoprire un georgiano e un coreano in terre di nessuno o di spendersi ben oltre la normalità sistemando trentacinque milioni per Jack Raspadori. Il Napoli sa quello che vuole sin dal giorno in cui Adl, con i suoi spigoli, ha lasciato che nelle rotondità del pallone ci entrasse altro, anche un pizzico (un pizzico?) di coraggio, un progetto che fosse autenticamente vero ed uscisse dalla banalità: nessuno è perfetto, qualche incidente di percorso c’è scappato, e però il concetto trainante di questa interpretazione manageriale rimane, anzi fa scuola, e diventa il mantra di una strategia rivoluzionaria.

Il Napoli ha cominciato periodicamente a sondare mondi diversi, come un plotone di rabdomanti ha recentemente lasciato che Giuntoli e l’area scouting abbattessero qualsiasi forma di prudenza, li ha autorizzati a rischiare, ha pescato ovunque - anche in terreni fertili e noti, perché nulla è vietato, ci mancherebbe - però si è lasciato guidare dall’istinto, dalle competenze di un manager che come un esploratore, affidandosi al proprio staff e con lo sguardo allungato nelle periferie. La start up più recente è servita per risistemare i conti, abbassare l’età media, ridimensionare i costi, legittimandosi con l’incedere non dei mercati d’arte (e non ci sarebbe nulla di offensivo, seppur fosse così) o dei conquistatori che arrivano e fanno razzie, ma come (ri)cercatori di un sistema che insegue il progresso pur guardando il campionato dall’alto. Un moltiplicatore di sogni.


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